L’acuta replica di Cesare Pagazzi («L’Osservatore Romano», 10 aprile) alla già stimolante ricerca sulle cause della crisi di fede di Pier Giorgio Gawronski («L’Osservatore Romano», 22 febbraio) è un esempio di quanto possa essere fecondo liberare le parole per provare ad affrontare i nodi più critici della vita ecclesiale di cui siamo tutti partecipi e, in modi diversi, anche responsabili. Dare un nome ai fenomeni che ci interrogano per provare insieme a interpretarli — senza la paura di esplorarli e senza la pretesa di comprenderli — è forse l’unica strada percorribile per consentire allo Spirito di Cristo di guidare la Chiesa verso la verità tutta intera, dove non si parla né — troppo — di sé, né — tanto — da se stessi (cfr. Gv 16, 13).
Col passare del tempo, forse senza nemmeno accorgercene, si è fatta strada nella mentalità dei credenti un’idea di verità rassicurante ma illusoria. Come se il patrimonio di fede, in cui sono condensate le ragioni che fondano la vita nuova in Cristo, potesse ridursi a un nucleo di assiomi e di proposizioni irrinunciabili, dove la dialettica si smorza tra pochi esperti, anziché liberarsi a vantaggio di tutti. Recuperando la nozione ebraica di verità (da aman, “fidarsi”), possiamo invece ricordare che quando le parole sono libere di venire alla luce e di confrontarsi, in un clima di rispetto e di fiducia reciproca, l’inutile contrapposizione lascia il posto alla felice collaborazione.
Se il venir meno della pratica religiosa sia la causa del deterioramento delle relazioni amicali all’interno delle comunità dei credenti o se sia piuttosto il frutto di un impoverimento della qualità umana nel corpo di Cristo è difficile stabilirlo. Quando nei nostri rapporti umani vengono meno calore e affetto diventa molto difficile restare insieme, anche se siamo consapevoli di non avere reali alternative, dal momento che uniti lo siamo già in base a quei vincoli spirituali che ci hanno costituito figli di Dio e fratelli tra noi.
Certo, il legame che unisce le membra di Cristo non è di tipo amicale ma uterino: siamo anzitutto fratelli, usciti dal medesimo grembo del fonte battesimale, figli di Dio per grazia. I fratelli possono solo riconoscersi, mentre gli amici devono scegliersi. Anche se la fraternità è un codice più robusto dell’amicizia per considerare la trama di relazioni che definisce la comunione cristiana, il legame di amicizia resta l’unico «orientato ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino ad accogliere tutti» (Papa Francesco, Fratelli tutti, 89).
Amicizia e fraternità non possono essere assunte come dimensioni “a priori”. Sono piuttosto semi delicati e fecondi, gettati nella terra della nostra umanità, bisognosi di essere coltivati con grande fiducia e immensa speranza. Possiamo ricordarci di essere fratelli, quando non riusciamo ad amarci cordialmente, ma non dobbiamo dimenticarci di diventare amici, quando il vincolo fraterno rischia di essere il pretesto per non continuare il santo — e terribile — viaggio verso l’altro.
Nel vangelo di Giovanni — il più spirituale, ma anche il più storico e concreto — Gesù inizialmente non si fida di quanti cominciano a nutrire fiducia e stima nei suoi confronti (cfr. Gv 2, 23-25). L’amicizia è una scelta di affidamento che si costruisce gradualmente e pazientemente, non solo l’apertura entusiasta di un momento felice. Gesù sarà capace di chiamare «amici» i suoi discepoli non certo in una condizione ideale o idilliaca, ma alla vigilia di tradimenti, rinnegamenti e, soprattutto, prima di una grande esperienza d’amore tutta da vivere e da patire. Solo dopo la risurrezione, quando il perdono toglierà ogni posto all’inutile rancore, Gesù potrà finalmente riconoscere coloro che aveva già scelto, chiamandoli anche fratelli (cfr. Gv 20, 17).
Essere fratelli è il legame “forte”, eppure così fragile, che unisce i figli di Dio in modo certo e indissolubile. Essere amici è l’affetto “debole”, eppure così necessario, che aggiunge ai legami certi il profumo inconfondibile di un amore libero ed esigente, disposto a spingersi fino al perdono. Non accontentarsi di essere già fratelli e non soffocare quel naturale bisogno di amicizia di cui abbiamo così nostalgia possono forse diventare i “precetti” nascosti e irrinunciabili, da osservare in questo tempo che viviamo. Un tempo critico eppure misteriosamente fecondo, dove può essere sufficiente ricordarci quello che siamo (fratelli) per ricominciare a essere quello che ancora non siamo (amici). Il mondo — forse — non si aspetta più grandi cose da noi. Ma potrebbe sorprendersi se in noi si manifestasse il segno di una nuova umanità: fratelli e sorelle capaci di riconoscersi e di scegliersi, fino a diventare amici.
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