· Città del Vaticano ·

SABATO ITALIANO

Le chiese vuote
e l’alibi della secolarizzazione

 Le chiese vuote  e l’alibi della secolarizzazione  QUO-108
15 maggio 2021

Il dibattito suscitato da Giorgio Gawrosnski su «L’Osservatore Romano», con il suo articolo del 22 febbraio Le chiese vuote e l’Umanesimo integrale, costituisce una delle poche discussioni interessanti che agitano, attualmente, il pensiero cattolico. Ripreso da altri interventi (G. De Rita, Le sfide della Chiesa di fronte all’era dello Spirito , 13-03; L. Brunelli, Le chiese vuote e la fantasia di Dio, 10-04; A. Piva, Vuote le piazze, vuote le chiese, 24-04; M. Matzuzzi, Cristiani senza Cristo, «Il Foglio», 01-05), esso pone il problema evocato dal titolo: perché le chiese sono vuote e tendono a diventare sempre più vuote? «In Italia — scrive Gawronski — i “praticanti” sono scesi in dieci anni dal 33% al 27%; tra i giovani (18-29 anni) i praticanti sono solo il 14%, e continuano a calare di quasi il 3% l’anno». Da cosa dipende questa disaffezione che colpisce l’Europa e il mondo economicamente sviluppato, molto meno l’Africa, l’America Latina, le Filippine?

Le motivazioni consuete le conosciamo: la secolarizzazione, il consumismo, il relativismo etico, ecc. A queste i tradizionalisti e i settori conservatori della Chiesa aggiungono le critiche al concilio Vaticano ii e al suo rappresentante attuale, Papa Francesco il cui peccato risiederebbe nell’aver allontanato la dottrina dalla retta tradizione. Sul versante opposto i progressisti addebitano l’allontanamento dei fedeli alla Chiesa “immobile”, ferma al celibato dei preti, alla morale sessuale chiusa, al maschilismo ecclesiastico. Si tratta di argomenti che, a destra come a sinistra, non convincono. Più giustificazioni che spiegazioni. Come scrive Gawronski: «Statisticamente non ottengono risultati soddisfacenti né le Chiese più “moderne”, né quelle più “conservatrici”». Ciò significa che la crisi presente della fede in Occidente non può certo essere imputata al concilio, né si può pensare che la sua risoluzione stia in un Vaticano iii . Come bene scrive Lucio Brunelli: «La crisi delle “chiese vuote” viene da lontano, inizia quando le chiese erano piene. … Era, quella degli anni ‘50, una chiesa militante, tosta nella dottrina, influente sulla vita politica. Eppure, salvo ancora un rispetto esteriore di forme e convenzioni sociali, non catturava più il cuore e le menti di larga parte delle giovani generazioni. La pratica religiosa ancora teneva, ma era una tenuta simile a quella di un’impalcatura priva di agganci solidi sul terreno. Basta uno scossone e viene giù. Il vento del ’68 portò via d’un botto alla Chiesa una generazione di figli inquieti. L’avvento di un nuovo potere consumista “che se la ride del Vangelo” — come profetizzava Pasolini negli anni ‘70 — sembrò far svanire come neve al sole, in poco più di un decennio, tutto un tessuto popolare cristiano, legato a un’Italia rurale, che c’era voluto secoli per formare». Matzuzzi riporta, in proposito, le parole del cardinale Wimeijk, arcivescovo di Utrecht: «Avevamo un surplus di sacerdoti, ordini religiosi congregazioni. Molti missionari nel mondo provenivano dalla piccola Olanda. Ma presto si è capito che le fondamenta di quella orgogliosa colonna cattolica erano molto meno solide di quanto sembrasse».

Ciò significa che il cristianesimo “tradizionale” degli anni ‘50 presentava gravi carenze. Non si spiega diversamente la velocità della sua liquidazione di fronte alla sfida della modernizzazione che in Europa si ha soprattutto a partire dagli anni ‘60. Quel cristianesimo si fondava su due pilastri: l’accettazione passiva del dogma e una dottrina morale limitata, per lo più, alla questione sessuale. Quando l’american style of life irrompe, con la sua visione liberal della vita, il mondo cattolico è decisamente impreparato. Abituato, dalla Controriforma in avanti, a concepirsi in una posizione di difesa, largamente incapace di sviluppare un confronto critico con il moderno, esso si trova spiazzato dal modernismo americano al cui confronto la Chiesa cattolica appare improvvisamente antiquata, un residuo di tempi passati. La dolce vita di Fellini è del 1960 e rappresenta bene il momento di passaggio, lo stacco generazionale tra le due Italie, quella del passato e quella del futuro. Qual era il limite della Chiesa e del cristianesimo di allora? Innanzitutto quello della sua cultura, la Neoscolastica dominante nei seminari e nelle Facoltà pontificie, un pensiero segnato da un radicale atteggiamento antimoderno, ostile al quadro delle libertà, accompagnato da una teologia dogmatica priva di un’antropologia teologica. Era il tempo in cui la teologia guardava con sospetto alle categorie di “esperienza” e di “senso religioso”.

Travolte dalla polemica antimodernista, a causa della loro formulazione inadeguata, esse lasciavano un vuoto, quello di una visione dell’uomo aperta al soprannaturale. La Neoscolastica, il neotomismo novecentesco, concepiva l’umano, al pari dell’illuminismo, come un blocco autonomo, chiuso, a cui la grazia si aggiungeva come un meteorite. La conseguenza era il timore di fronte al mondo secolarizzato, avvertito come antropologicamente estraneo e nemico. Il ponte dal dogma all’umanesimo “ateo” sembrava impossibile. Il risultato era che la psicologia “cristiana” teneva finché le porte della Chiesa rimanevano chiuse. Ogni uscita veniva pagata, con crisi interne, cedimenti, fughe. La grande crisi che segue gli anni del post-concilio non dipende da crolli improvvisi quanto dai limiti della cultura cattolica. Il progressismo post-conciliare è l’esatto rovescio del tradizionalismo precedente, ne è il calco rovesciato e può trovare spiegazione solo a partire dai limiti della cultura Neoscolastica.

Di fronte all’esodo di centinaia di migliaia di cristiani, che trovarono nel marxismo il loro punto dì approdo, la risposta più significativa, da parte della Chiesa, non venne dai settori tradizionalisti, dagli oppositori al concilio, ma dai nuovi movimenti ecclesiali i quali dimostrarono allora, in un clima fortemente ostile, di non sposare la reazione conservatrice ma di intercettare le speranze e le attese dei giovani più lontani, di quelli che non provenivano dalle famiglie cattoliche o dalle parrocchie. Questo incontro fu possibile non solo grazie alle personalità carismatiche dei fondatori ma perché la proposta cristiana rivolta ai giovani ricordava, come afferma Gawronski nel suo articolo, la dinamica della Chiesa dei primi secoli: quella della testimonianza personale e comunitaria, della partecipazione ad un’esperienza di umanità rinnovata capace di investire la realtà e la storia. «Come accadeva nei primi secoli» scrive Brunelli. Di fatto i movimenti ecclesiali hanno rappresentato, almeno fino agli ‘90. una grande speranza, un segno di vitalità e di giovinezza per un cristianesimo alla deriva, respinto dal messianismo politico e settario del ‘68 pensiero. Poi il vento della restaurazione, seguente all’89 e alla caduta del comunismo, ha di nuovo riannodato il gomitolo. La Chiesa nel suo insieme è tornata a blindarsi, impaurita di fronte ad una secolarizzazione sempre più arrogante, a chiudere nuovamente le porte. Evangelizzazione e promozione umana, i due poli della Evangelii nuntiandi di Paolo vi , si sono perse per strada. Al posto della evangelizzazione troviamo le “battaglie” etiche incentrate sulla lotta contro aborto, eutanasia, matrimonio gay, mentre al posto della promozione umana troviamo una acquiescenza totale verso il modello capitalista e un oblio profondo della dottrina sociale della Chiesa. Conformismo e manicheismo, questi i due poli del cattolicesimo odierno. Di fronte a questa prospettiva non sorprende il progressivo svuotarsi delle chiese e la distanza che separa i giovani dalla fede. Perché mai un giovane di oggi dovrebbe essere attratto da una posizione che si qualifica solo per un campo ristretto di battaglie etico-culturali? Un giovane che, lo ricordiamo, è distante anni luce dal militante impegnato degli anni ‘70.

Ciò che difetta al cattolicesimo odierno, anche e soprattutto a quello impegnato, è la categoria di “incontro”. Una categoria che attraversa e supera la distinzione tra destra e sinistra e che consente di andare direttamente al cuore dell’umano. Come può oggi la Chiesa raggiungere questo “cuore”? Questa è la domanda che occorre porsi di fronte allo spettacolo delle chiese occupate dai soli anziani. Rispondendo ad essa Papa Francesco ha affermato, il 13 settembre 2018: «La teologia, infatti, non può essere astratta — se fosse astratta, sarebbe ideologia—, perché nasce da una conoscenza esistenziale, nasce dall’incontro col Verbo fatto carne! La teologia è chiamata allora a comunicare la concretezza del Dio amore. E tenerezza è un buon “esistenziale concreto”, per tradurre ai nostri tempi l’affetto che il Signore nutre per noi. Oggi, infatti, ci si concentra meno, rispetto al passato, sul concetto o sulla prassi e più sul “sentire”. Può non piacere, ma è un dato di fatto: si parte da quello che si sente. La teologia non può certamente ridursi a sentimento, ma non può nemmeno ignorare che in molte parti del mondo l’approccio alle questioni vitali non inizia più dalle domande ultime o dalle esigenze sociali, ma da ciò che la persona avverte emotivamente».

Il Papa fa qui un’affermazione di grande rilievo: «L’approccio alle questioni vitali non inizia più dalle domande ultime o dalle esigenze sociali, ma da ciò che la persona avverte emotivamente». Come a dire che la linea d’onda lungo la quale il cristianesimo può incontrare il mondo non è più quella filosofica degli anni ’50, segnati dall’esistenzialismo e dalle domande sul senso della vita, né quella politica degli anni ’70, segnati dall’impegno militante e ideologico del marxismo, ma trova la sua possibilità in una sensibilità nuova che caratterizza l’ora presente.

Questo è un giudizio storico che motiva l’insistenza con cui Francesco parla della tenerezza di Dio. L’uomo di oggi è, nella sua fragilità, particolarmente ricettivo alla dimensione affettiva. Nel “mondo senza legami”, nella società liquida, il tema del senso della vita non rappresenta la conclusione di un ragionamento logico quanto l’esito della scoperta di sentirsi amati, voluti bene. A questa responsabilità “affettiva” sono oggi chiamati in primis i presbiteri e i religiosi, uomini e donne. Le chiese sono vuote quando i pastori invece di essere tali sono burocrati, funzionari, impiegati. Il problema della Chiesa odierna è che difetta troppo spesso di pastori, di persone che amano Cristo e condividono la vita di coloro che sono loro affidati. La secolarizzazione rappresenta, da questo punto di vista, l’alibi che nasconde il vuoto di fede e di tenerezza, la distanza tra le parole, spesso altisonanti e melliflue delle omelie, e la prossimità reale capace di saluti e di gesti. Là dove il pastore è un uomo di Dio che si fa tutto a tutti lì le chiese tornano, miracolosamente piene. L’uomo odierno, il giovane di oggi, non ha perso il senso dell’amore divino.

di Massimo Borghesi


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