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SABATO ITALIANO

La forza liberante dell’ascolto

 La forza liberante dell’ascolto  QUO-137
19 giugno 2021

Il dibattito che si è sviluppato in questi mesi sulle pagine de «L’Osservatore Romano» è sicuramente tra i più coinvolgenti nel passaggio epocale che viviamo come Chiesa; e sono davvero molte le sollecitazioni a pensare, a discutere, a interrogarsi ancora, emerse nei contributi succedutisi.

Sollecitata da questo dibattito, provo anch’io a proporre alcune riflessioni. Personalmente non credo che la questione delle Chiese vuote si risolva semplicemente attraverso un agire pastorale che oltrepassi le strutture territoriali per privilegiare i piccoli gruppi, piccole comunità elettive di condivisione di vita (anche se riconosco ovviamente tutto il valore di simili comunità). E non penso neppure sia semplicemente una questione di linguaggi da adattare alla comunicazione dominante (pur se è fuor d’ogni dubbio che esista anche un problema di linguaggio) o di spazi da redistribuire nella definizione di nuove ministerialità (alcune delle quali certamente auspicabili).

C’è sicuramente un di più di creatività da liberare, perché non ci si limiti a fare come si è sempre fatto, restando attaccati disperatamente al già noto per fuggire la fatica di pensare. Una pastorale stanca e ripetitiva non porta da nessuna parte e, soprattutto, non porta le persone al Signore, per quello che almeno dipende da noi. Ma anche una pastorale frizzante e innovativa ad ogni costo non è detto che apra vie di autentica comunicazione con la vita della gente. Non è dall’etichetta di progressisti o tradizionalisti che passa l’autentica novità che è richiesta dal cammino stesso della Chiesa tra la gente. La novità può venire solo dall’ascolto. Quell’ascolto della vita delle persone e della parola del Signore — che è poi un unico ascolto — al quale Papa Francesco ha invitato con forza in apertura del Sinodo straordinario sulla famiglia nell’ottobre del 2014 (il primo nello stile di Francesco). In fondo, il senso autentico della sinodalità, anche del percorso delineato in vista dell’Assemblea sinodale del 2023, è tutto nella capacità di ascolto, nell’urgenza e imprescindibilità dell’ascolto. La fede nasce dall’ascolto, la vita di fede è nutrita di ascolto, e l’annuncio della fede, prima ancora di essere parola pronunciata, è parola accolta, recepita; ma anche “intercettata”. Perché la parola del Signore ci viene incontro nella vita, tra le pieghe della storia, nelle vicende di chi ci sta accanto, così come in quello che accade mille miglia lontano da noi. La secolarizzazione, riportando l’attenzione sull’orizzonte immanente del tempo, è una grande sfida a riscoprire dentro il tempo e la storia la presenza del Signore.

Richard Kearney, in un testo discusso ma molto interessante di qualche anno fa: Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio (Fazi, Roma 2012), poneva con chiarezza l’esigenza che è al cuore di un “ritorno” a Dio oltre gli opposti estremi del teismo fanatico e dell’ateismo ideologico: cogliere Dio nel secolare, «nella carnalità dell’esistenza terrena», anche tra “le pentole” come amava dire Teresa d’Avila. Coglierne la prossimità, la presenza. Ma imparare a farlo custodendone quella che Kearney chiama “l’estraneità” — che è un altro modo per dire trascendenza —: perché un Dio “straniero” è il Dio che viene e che chiede di essere accolto, senza poter essere consumato e schiacciato sull’orizzonte dei nostri bisogni, senza essere ridotto a vessillo identitario.

Abbiamo forse troppo insistito solo sulla trascendenza di Dio, lo abbiamo reso altissimo onnipotente irraggiungibile, per poi identificarlo nella sua altezza con la pretesa di perfezione della nostra specifica concettualità teologica — di qualunque segno essa fosse — con i paludamenti di forme ecclesiali quanto più solenni tanto più vuote di sostanza, con battaglie di innovazione o proclami di ritrovata giustizia talvolta più ideologici che reali, più funzionali all’alto senso di sé che a chi si diceva di voler riscattare. E abbiamo dimenticato che il Signore è più vicino a noi di quanto possiamo immaginare e che è vicino a ogni essere umano. «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore» (Rom 10,8). Abbiamo dimenticato che, come scrive Xavier Zubiri, la trascendenza di Dio è «trascendenza nelle cose» e «nella persona umana» (L’uomo e Dio, Marietti, Genova-Milano 2003).

Perché la sua presenza ci è data nell’incondizionatezza di un amore preveniente che è sorgente di ciò che noi siamo e che è al cuore dell’esistenza di ogni essere umano e al cuore della storia, quale fonte inesauribile di ogni possibilità di bene e spinta che si traduce in un «verso»: nella tensione alla pienezza che non possiamo strapparci dal cuore. Il donarsi incessante di Dio non dipende da noi. Ed è in questo donarsi che siamo dati a noi stessi. Non siamo noi a porre la relazione a Dio. Anche se spetta a noi riconoscerla e accoglierla, aderire ad essa lasciando che essa dia forma alla nostra vita. Questa relazione si dà come «un fatto»: è la relazione nella quale siamo posti prima ancora di porci e di possederci, e nella quale ci scopriamo interpretati. Perché questa relazione è la verità più profonda del nostro essere e del nostro esistere, la stoffa di cui siamo fatti e di cui è fatta la nostra esistenza nella concretezza delle sue vicende e nella unicità di ogni storia. Non c’è essere umano senza Dio. E non c’è popolo, non c’è cultura, non c’è epoca storica o società senza Dio. L’esperienza di Dio si dà anche laddove essa non venga riconosciuta come tale. E si dà in un modo che è unico, originale, che è proprio di quella storia personale, di quella cultura o di quel tempo. C’è un’infinita varietà di tonalità secondo la quale non smette di darsi l’esperienza di Dio. Anche laddove ci si trovi dinanzi a una società che appare segnata dall’indifferenza o dalla negazione di tale esperienza è in realtà dinanzi a una forma diversa dell’esperienza di Dio che siamo posti. Scrive ancora Zubiri: «L’uomo ha un’esperienza sociale di Dio anche quando può trovarsi a vivere o vuole vivere in una società senza Dio, perché tutto ciò costituisce una precisa forma di esperienza di Dio» (L’uomo e Dio, p. 275).

Si tratta allora di comprendere in quale forma, con quali tratti, attraverso quali istanze, si dia oggi l’esperienza di Dio. E il confronto non può essere prima di tutto sul piano intellettuale, sul piano delle idee, perché la presenza di Dio non è un’idea o una teoria, ma una esperienza. È la vita nella sua concretezza il terreno del confronto possibile, il luogo in cui rintracciare il darsi dell’esperienza di Dio. Ed è in particolare l’affettività, «ciò che la persona avverte emotivamente» — come affermato da Papa Francesco — quel che occorre imparare ad ascoltare. La «responsabilità affettiva» alla quale Massimo Borghesi richiamava, giustamente, i pastori nel suo articolo del 15 maggio, vale per tutta la comunità credente. Abbiamo bisogno di assumere lo sguardo di Dio sulla vita delle persone, di ritrovare quella tenerezza che spalanca il cuore e apre lo sguardo, facendo scorgere la grazia di Dio nelle fatiche e negli slanci, nello smarrimento, nel grido e talvolta persino nell’indifferenza che segnano la vita di chi ci sta accanto, l’esperienza e il sentire del tempo in cui siamo immersi.

Non si tratta di adattarsi semplicemente a un primato dell’emotività o di blandire le emozioni facendo leva strumentalmente su di esse, ma di imparare ad ascoltarle, maturando quella che Max Scheler chiama «finezza d’udito» e che consente di cogliere la forza rivelativa del sentire. È nei sentimenti che affiorano le correlazioni che «governano il senso e il significato della nostra vita»; è in essi che si lascia avvertire ciò che è degno di essere amato. Occorre però imparare a discernere tra ciò che appartiene al puro sentire, ciò verso cui ci indirizza la profondità del cuore, e ciò che invece, anche nel nostro sentire, deriva da una volontà orientata verso fini particolari. Un discernimento in cui esercitarsi e di cui avvertire tutta la responsabilità (cfr Ordo amoris, Morcelliana, Brescia 2008).

Solo comprendendosi in cammino e tra la gente, la Chiesa e la teologia potranno evitare di essere «frigoriferi per vecchie verità» (per usare ancora un’espressione di Max Scheler), e avere una parola significativa da offrire. Una parola fatta di ascolto, una parola umile che ha il sapore dell’accoglienza, il coraggio della novità, il senso profondo dell’affidamento, e la freschezza dello stupore fatto di gioia e di lacrime

Per stare in questo tempo e riaprire le sue porte, la Chiesa ha bisogno di una teologia che muova dalla vita e forse anche di una teologia dell’esperienza religiosa, che aiuti a centrare l’attenzione sull’azione di Dio, prima e oltre la nostra stessa consapevole adesione a lui, e all’origine della nostra azione.

La verità è che Dio non si lascia catturare dai nostri schemi. Solo nell’ascolto si lascia trovare.

La verità è che se solo imparassimo ad ascoltare la vita — la vita concreta, le vicende di ogni giorno, e la vita di tutti, l’esperienza comune, ma anche l’esperienza di ciascuno nella sua unicità — lo troveremmo lì ad aspettarci. «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). E forse, impareremmo anche noi ad aspettare e ad accogliere, nella forza liberante dell’ascolto.

di Giuseppina De Simone


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