SABATO ITALIANO

Il desiderio fondante

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03 luglio 2021

Ogni persona cresce in umanità incontrando gli altri: sono i gesti, le parole, le azioni che sperimenta, i contesti che abita, le cose che utilizza, che concorrono, assieme ai suoi atti di intelligenza e alle sue decisioni, a dare forma alla sua vita e alla sua identità. Ugualmente la coscienza credente non è semplice questione di appartenenza sociale o adesione intellettuale. Nell’educazione cristiana è chiaro che le strutture organizzative, gli aspetti conoscitivi, le norme comportamentali sono molto importanti, ma nella misura in cui sono a servizio della promozione di una adesione personale al Vangelo, alla maturazione di una “mentalità di fede”, di un modo di “vedere” l’uomo, la storia, il mistero di Dio, i cui significati portanti sono incontrati esistenzialmente.

La crescita nella vita di fede comporta che la persona si senta progressivamente attratta, coinvolta, toccata interiormente dal messaggio evangelico; che colga nella proposta cristiana l’appello a vivere in profondità la propria umanità, accogliendo l’invito ad accogliere l’annuncio dell’Amore che salva. Ha scritto Papa Francesco nell’Evangelii gaudium, riprendendo il tema della centralità dell’incontro con «un avvenimento, con una Persona», richiamato più volte da Benedetto xvi : «Solo grazie a questo incontro — o reincontro — con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero» ( Eg , n. 8).

Il cuore dell’azione della comunità ecclesiale è promuovere questo incontro tra la libertà delle persone e il Vangelo, anche oggi dove il contesto sociale è segnato da una progressiva “indifferenza” nei confronti della vita cristiana. Si tratta di un atto di promozione creativo e intelligente che, proprio per questo, chiede costantemente di comprendere che cosa sta accadendo e lasciarsi interpellare dalla realtà. Scriveva B. Lonergan in Il Metodo in teologia «Il messaggio cristiano va comunicato a tutte le nazioni. Tale comunicazione presuppone che quelli che predicano e quelli che insegnano allarghino il loro orizzonte così da includere un’intelligenza accurata e intima della cultura e della lingua delle persone a cui si rivolgono».

In questi anni diversi studi compresi quelli promossi dall’Istituto Toniolo, ai quali ho avuto modo di partecipare direttamente, hanno descritto ampiamente il modo con cui in Italia è vissuto il rapporto con la Chiesa cattolica e la fede cristiana. Ha ben sintetizzato tale scenario Pier Giorgio Gawronski, nell’articolo del 22 febbraio scorso. L’orizzonte culturale non è più da molto tempo quello del cattolicesimo; la maggior parte delle persone nella gestione della loro quotidianità ordinaria non fa riferimento ai riti, ai linguaggi, ai tempi della vita ecclesiale; nell’interpretazione della realtà e nelle decisioni i primi riferimenti culturali non sono quelli della fede cristiana. Sebbene vi siano differenze tra i territori (nord – centro – sud; contesti urbani, piccoli centri, paesi), l’appartenenza alla vita ecclesiale, al di là di una superficiale adesione al cristianesimo come dato identitario nazionale, si va frammentando, l’adesione intellettuale è debole, la stessa conoscenza dei fatti e dei concetti fondamentali del cattolicesimo è molto bassa. Anche la fiducia, purtroppo, risulta fragile e nei giovani solo una minoranza ritiene la Chiesa affidabile.

Molti pensano di conoscere il cattolicesimo, ma in realtà pochi possiedono almeno un alfabeto di base; diversi ancora vivono il contatto con la comunità ecclesiale, soprattutto per i percorsi di iniziazione cristiana e per la celebrazione liturgica di alcuni momenti significativi della vita, ma tutto questo processo sembra non incidere troppo sul modo di vivere delle persone. Le interpretazioni di questo distacco sono molteplici, ma il dato di realtà appare chiaro.

L’analisi dello scenario però ci parla e ci racconta anche di altro: di come le persone si lascino ancora interrogare dalle domande più profonde; di come abbiano il desiderio di vivere incontri capaci di allargare la mente e cuore e di come molti cerchino proposte capaci di ampliare lo sguardo e di generare speranza; di quanto siano eloquenti i gesti di cura e di dedizione; di come il Vangelo continui a smuovere le coscienze; di come ci si aspetti dalla Chiesa una maggiore coerenza tra ciò che annuncia e ciò che opera e un’azione pastorale capace di rinnovarsi nel linguaggio e nelle modalità.

Il tempo della pandemia ha fatto emergere con più chiarezza quanto sia radicata la secolarizzazione, ma anche quanto il Vangelo sia all’opera. Ha messo maggiormente in luce le fragilità delle comunità ecclesiali, come di tutte le altre realtà comprese le nostre fragilità personali e familiari; ha evidenziato il distacco e l’indifferenza di molti. Nello stesso tempo si è potuta constatare la generatività della vita ecclesiale, quando è rimasto vivo il desiderio fondante di condividere con gli altri il dono del Vangelo che è stato ricevuto.

Durante i mesi più duri del lockdown, le comunità che hanno retto maggiormente di fronte alla drammaticità delle situazioni (si pensi soltanto all’impossibilità del commiato ai defunti) e all’inedito, sono quelle che non hanno smesso, di coltivare, seppure in forma diversa, l’essenziale: la cura delle relazioni, i momenti di preghiera insieme; il ritrovarsi (seppure a distanza) attorno alla celebrazione eucaristica, l’attivazione nei confronti dei bisogni sociali ed economici delle persone.

Non sono poche le comunità e le realtà ecclesiali che hanno scoperto come le piattaforme digitali, sebbene non possano mai sostituire l’incontro in “presenza”, possano essere di aiuto tenere i contatti, per allargare il coinvolgimento; che hanno scoperto in modo ancora più chiaro quanto le persone abbiano bisogno di gesti di attenzione, di cura, di sentirsi parte di una comunità, di sentirsi accompagnate nel vivere e nel credere.

È importante, perciò, anche ora che tutti auspichiamo un ritorno alla “solita ruotine”, continuare a chiederci come le comunità cristiane possano essere generative anche in un tempo di irrilevanza e “debolezza” sociale e culturale. Sarà un tempo di preziosa debolezza se diventerà occasione di rinnovamento, se aiuterà a porre al centro la questione della vitalità delle comunità ecclesiali, anche se piccole. Questa vitalità passa dalla capacità di lasciarsi interrogare, senza pretendere risposte immediate: come le comunità possono comunicare attenzione, accoglienza, cura, dedizione? Quanto sanno ascoltare la vita delle persone? Quanto sanno trasmettere fiducia e apprezzamento? Come riescono a suscitare domande, a generare desiderio di cambiamento, a comunicare il Vangelo come annuncio liberante? Quanto sono attente ad accompagnare le persone nei loro dubbi, nelle loro difficoltà? Quanto comunicano la bellezza dell’incontro, la gioia del credere?

Penso che non sia tanto l’irrilevanza che le comunità debbano temere (sebbene vadano prese sul serio), ma l’indebolimento del desiderio di promuovere e rinnovare l’incontro tra la vita delle persone e il Vangelo e la perdita della cura della capacità di saper parlare a quelle istanze profonde che rendono ciascuno di noi aperto all’ascolto della Parola. A questo riguardo è di rilevante importanza il rinnovamento del compito educativo, attraverso l’attenzione a proposte formative non improvvisate e innestate su contesti vitali, capaci innanzitutto di far fare esperienza dei significati portanti della vita cristiana, attraverso i gesti, le parole, i riti, le azioni. Ha pienamente ragione P.G. Gawronski quanto auspica un ripensamento delle pratiche secondo il criterio di un umanesimo integrale, ossia capaci di parlare a tutte le dimensioni della persona.

di Pierpaolo Triani


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