SABATO ITALIANO

Parrocchia una bella storia
senza interruzioni

Saidi Mehe alla stazione Termini con i tunisini  - Saidi Mehe alla stazione Termini con i tunisini. ...
26 giugno 2021

Il percorso della parrocchia è una storia senza interruzioni. Sfogliando il libro dei ricordi troviamo tanta bellezza e non poche volte rimaniamo incantati da alcune pagine meravigliose, dove sembra di toccare lo Spirito con le mani. Ognuno di noi custodisce nel cuore nomi e cognomi di angeli incontrati durante il cammino, che hanno condiviso un pezzo di strada insieme con noi, sacerdoti e laici testimoni veri del vangelo. Penso qui a Roma in particolare nel secolo scorso, cosa sono state le parrocchie durante le due guerre mondiali e il dopoguerra, che punti di riferimento prezioso hanno rappresentato durante il grande fenomeno dell’urbanesimo, oppure negli anni di piombo del terrorismo.

Una storia che continua, così semplicemente nell’attesa di nuove sorprese dello Spirito. Una storia che bisogna guardare anche dall’interno; ritengo infatti che alcune analisi sulla presunta crisi della parrocchia siano troppo esterne ad essa e provengano da intellettuali laici e chierici che non conoscono e non vivono la realtà quotidiana della parrocchia, spesso molto diversa da come la si descrive; anche in questo caso la realtà è superiore alla idea.

Vorrei subito arrivare a quello che secondo me è un punto centrale e direi decisivo: la parrocchia per essere tale, deve essere ancorata al dolore del mondo; così è sempre stato e così sarà. Non importa se siamo pochi o anche se siamo soli culturalmente (questa parola cultura spesso usata e abusata per nascondere una mediocre spiritualità), anche il dolore di uno solo deve essere il dolore del mondo intero.

Sono rimasto molto colpito da un pensiero che ho letto nella Laudato si’ al n. 19 che per analogia penso si possa applicare molto bene alla parrocchia: «L’obbiettivo è di prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale, quello che accade al mondo».

Partecipare personalmente al dolore del mondo fa delle nostre parrocchie un luogo mistico, dove non si perde tempo a contarsi o a contare; che le parrocchie debbano contare, essere rilevanti, ben inserite nei palazzi importanti, è una tentazione di costantiniana memoria; un po’ di lievito nella pasta, un piccolo seme, un solo bicchiere di acqua fresca dato a chi ha sete, così vive e si rigenera una parrocchia. Essere legata a doppio filo al dolore del mondo costruisce, giorno dopo giorno, una parrocchia senza più mura, che coincide con il territorio dove svolge il suo servizio, insieme guardando all’orizzonte dell’universo intero.

Un altro ancoraggio fondamentale è quello con la Parola di Dio; la storia anche recente del rapporto tra la Bibbia e il popolo di Dio è un intreccio di clericalismo e libertà, di potere e di servizio, di santità e di menzogna, un parto difficile ma ormai avvenuto.

Ho sempre trovato molto illuminante nel mio servizio di parroco, l’esperienza di Filippo descritta negli Atti degli apostoli; da essa, in particolare il battesimo del funzionario di Candace, possiamo imparare molto e trovare in quel racconto speranza fiducia e incoraggiamento per l’oggi della parrocchia. Ne colgo qui solo qualche aspetto.

Filippo viene condotto dallo Spirito in «una strada deserta». Abitare con gioia questa parrocchia “deserta” è una chiamata dello Spirito.

Respirare il mondo moderno con le sue contraddizioni, i suoi grattaceli e i suoi cimiteri, abitarlo ripeto, con gioia e fiducia, senza nostalgie per il passato, vivendo il nostro servizio al vangelo e al bene comune, con serenità, perché anche questo nostro tempo, magari senza rendersene totalmente conto, è aperto al Mistero, desidera trovare il senso profondo della vita. È una città che in parte ha smarrito Dio, ma non è contro Dio.

Il brano degli Atti così continua: «quand’ecco un etiope».

Che meraviglia vedere, che in una situazione non ideale, in un ambiente non favorevole, lo Spirito sorprende Filippo con un incontro improvviso; incontra un uomo che viene da lontano. Potremmo dire è un uomo come tanti oggi che stanno venendo nella nostra città; il fenomeno migratorio che tutti ci interpella come cristiani e come cittadini, non è un esodo biblico, come comunemente si dice, ma vorrei dire è una Epifania, cioè una manifestazione di Dio; il Signore ci sta parlando, ci sta dicendo qualche cosa, in quei volti e in quelle storie. Lasciamoci anche noi sorprendere e meravigliare, dagli incontri con gli uomini lontani o feriti nella loro intimità, che lo Spirito suscita nella nostra vita quotidiana, davanti agli sportelli dei nostri uffici, nei nostri quartieri, davanti le porte delle nostre chiese.

Questo uomo: «leggeva il profeta Isaia».

Le parrocchie lo sanno molto bene per esperienza diretta; nell’uomo moderno della nostra città, che è nato qui o che viene da lontano, povero o ricco di beni, che forse si è smarrito nel deserto, spesso ferito dalla vita, rimane insopprimibile il desiderio di Dio. Sono cambiati i linguaggi, e stanno cambiando anche le strutture, ma la questione di Dio rimane, perché è lo Spirito che la suscita in ogni cuore, su ogni strada, forse specialmente su quelle deserte, ed in ogni momento.

Basta solo ascoltare. Un ascolto che non ha bisogno di tante parole e neanche di tanti libri, ma di una presenza silenziosa e concreta; accostarsi, correre vicino, sentire, salire sul carro, sedersi accanto, dice il testo degli Atti; sono questi i verbi della parrocchia.

«Capisci quello che stai leggendo?» domanda Filippo. Io credo e vedo che le parrocchie sono ancora capaci di una presenza discreta che vuole tendere una mano, e facilitare il cammino, suscitando un dialogo. La parrocchia dovrebbe essere un luogo di normalità, semplicità, difettata, dove spesso le cose non funzionano ma ci si vuole bene.

Arriviamo così al vertice di questo incontro con una parola di grande bellezza e profondità: «Filippo prendendo la Parola annunciò a lui Gesù». Una sintesi molto efficacie.

La Buona Notizia da annunciare, e che l’uomo del nostro tempo desidera anche senza averne piena coscienza, nel deserto di tanti giorni, è Gesù, non occorre aggiungere altro. Ecco allora il nostro compito; far vedere, dire, testimoniare come Gesù ha cambiato la nostra vita, come in concreto ha agito in me, e ha irrigato il mio deserto.

Abbiamo troppo “organizzato” le nostre parrocchie anche dal punto di vista nominalistico; parole come ufficio del parroco, ufficio parrocchiale, orari per le confessioni, orari di chiusura e apertura sono semplicemente sbagliate, ultime roccaforti di una stagione ormai finita.

«Ecco qui c’è acqua; che cosa mi impedisce di essere battezzato?». La forza della parrocchia sta anche in questo; ancora qui si nasce alla fede e si muore. Nascita e morte non sono due momenti come gli altri, ma due colonne fondanti.

A mio parere la parrocchia avrebbe ragione di esistere anche solo per questi due fatti; un parroco può saltare anche qualche messa se capita, ma mai dovrebbe mancare a un battesimo o un funerale.

Le nostre parrocchie della diocesi di Roma recentemente si sono dedicate in modo particolare ad ascoltare il grido delle città; siamo consapevoli e dobbiamo essere grati che questo grido può essere a volte anche un grido di protesta, contro gli ostacoli, contro i pregiudizi, contro certe rigidità, contro tutto ciò che impedisce, di “essere battezzati”, di essere felici. La parrocchia meglio di altri può facilitare l’incontro con il Signore. Altro che crisi, noi oggi abbiamo tante e sempre nuove opportunità, in un a tu per tu che ogni giorno ci sorprende. Vorrei chiedere al Signore di rimuovere dal mio cuore prima di tutto, e poi anche dalle consuetudini, dal si è sempre fatto così, da alcune strutture ormai datate, ogni ostacolo che impedisca l’incontro di ogni uomo con Gesù.

In conclusione di queste semplici riflessioni, ritengo importante evidenziare alcune scelte pastorali già delineate in Evangelii gaudium che ha ricollocato la parrocchia al centro del villaggio come si sa.

Bisogna proprio che i portoni delle chiese siano spalancati; dico proprio spalancate le porte centrali non solo le anguste e nascoste porticine laterali. Porte aperte significano cuori aperti. Una delle cose più belle nella mia giornata da parroco è guardare le persone che entrano in chiesa solo per qualche minuto di raccoglimento; quelle che passano davanti, non entrano ma si fanno il segno della croce o mandano un bacio alla immagine della Madonna.

Porte aperte non solo per entrare ma anche per uscire; c’è bisogno di sacerdoti in mezzo alla gente nel territorio della parrocchia, al bar come al supermercato, nella piazza del quartiere come nelle case.

Bisogna poi proprio intercettare gli orari dell’uomo moderno; celebrare la messa nell’orario della pausa ufficio non è inutile sforzo ma direi quasi necessario; vivere la movida della sera con la chiesa aperta non è modernismo ma possibilità di incontri profondi ed amicizia.

La parrocchia ha alle spalle una grande storia come accennavo all’inizio ma sono convinto che certamente già possiede più futuro che passato.

di Francesco Pesce


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