· Città del Vaticano ·

L'OSSERVATORE ROMANO
160 anni di storia guardando il futuro

Storie di strada
e di riscatto sociale

A man sleeps in front of a closed shop during a government-imposed lockdown forced to prevent the ...
03 luglio 2021

Un fermo immagine. In una qualunque delle città del nostro Paese. A Roma, come a Milano. A Torino, come a Napoli l’immagine è la stessa. Documenta la lunga coda di persone in attesa di un pasto o di un pacco viveri alle mense delle Caritas diocesane. Frammento di una sceneggiatura dai toni scuri. Racconta di un Paese provato, segnato, ferito dalla pandemia, che ha visto la povertà assoluta, dove ogni minimo bisogno è un problema, allargarsi come una macchia che sembra non abbia limiti. Una marea che monta, che coinvolge un numero sempre più grande di famiglie che non avevano conosciuto, fino a pochi mesi fa, lo spettro della povertà. E che, soprattutto, non pensavano di dover fronteggiare, spesso senza adeguati strumenti, quindi indifesi, le crisi economiche degli ultimi anni; che hanno fatto retrocedere agli ultimi posti chi, faticosamente, stava affrancandosi poco più avanti nella fila.

Il fermo immagine del 2021, racconta di un Paese dove l’emergenza sanitaria sta diventando anche emergenza sociale. Le Caritas diocesane, i centri di ascolto delle parrocchie sui territori, i volontari e gli operatori segnalano un profondo aumento delle disuguaglianze tra chi ha e chi non ha. Sembra incredibile a dirsi, ma oggi, in Italia, si può essere poveri pur avendo un lavoro. Carlo Verdelli, nel pezzo di apertura per il numero di maggio che ha celebrato i primi 25 anni di «Scarp de’ tenis», definisce così, come meglio non si può, i poveri: «Povero è una parola triste, che ha perso dignità nel tempo. Povero non è più il contrario di ricco ma l’opposto di vincente. Chi è povero ha perso e quindi sta fuori dal gioco, nessuna o pochissime possibilità di rifarsi, sempre meno. L’ascensore sociale si è bloccato da anni e ormai funziona solo in discesa, dai piani bassi ai sotterranei».

In questi ultimi anni l’Italia è cambiata profondamente e, in maniera altrettanto radicale, si è trasformato il mondo di chi nel nostro Paese vive ai margini. Per effetto delle migrazioni è mutato l’identikit degli esclusi per antonomasia, i senzatetto. Gli homeless oggi sono più giovani, più istruiti, potenzialmente più capaci di contribuire alla società e nonostante ciò restano tagliati fuori. «Il sismografo della Caritas, piazzato sulle strade d’Italia — scrive ancora Carlo Verdelli — registra che quasi una persona su due di quelle che chiedono aiuto non era mai venuta prima alle mense, nei centri d’ascolto. Una bomba sociale, per ora sottotraccia e taciuta, che meriterebbe non degli artificieri per disinnescarla o degli illusionisti per farla scomparire. Meriterebbe, questa umanità sempre più indifesa, una presa di coscienza forte del Governo, delle amministrazioni sul territorio, delle Istituzioni con la maiuscola. Servono progetti per ridare dignità e servono fondi per attivare quei progetti».

Immagini e numeri che stridono con il racconto, con la narrazione che ci viene proposta ogni giorno, con le storie che ci vengono raccontate. La pandemia ci ha costretti a ripensare la scala di valori sulla quale abbiamo impostato le nostre vite e i nostri stili di vita. E soprattutto costringe, noi giornalisti, a ripensare il nostro mestiere. Abbiamo di fronte a noi una sfida decisiva, occorrerà schierarsi, fare scelte. Per i giornali di strada, per «Scarp de’ tenis» e per gli altri centotrenta street magazine del mondo, la scelta sta nella propria missione. Significa schierarsi con chi non ha una voce, con gli ultimi, gli invisibili. Perché sono duplici gli obiettivi di un progetto, unico, come è quello del giornale di strada. Da una parte aiutare persone emarginate, in grave difficoltà a riconquistare autostima e dignità attraverso il lavoro di vendita della rivista, dall’altra fare informazione su temi sociali spesso tralasciati da giornali e media di massa. Storie autentiche, spaccati di vita vissuta, storie di strada e di riscatto sociale.

Le vicende personali si trasformano spesso in racconti poetici, storie fantastiche, messaggi per comunicare le proprie traversie, per questo è importante dare voce e diritto di parola agli “invisibili”, raccontando le parabole di vita, i problemi, i punti di vista, illustrando i fenomeni di impoverimento e marginalizzazione che li vedono, loro malgrado, protagonisti.

Ma, sul piano dell’inclusione, c’è ancora di più. Perché i giornali di strada, come Scarp, per le persone che li vendono, sono un punto di partenza per ritrovare la propria voce, la propria dignità di cittadini, per maturare la consapevolezza e l’orgoglio di avere una vicenda da raccontare, un messaggio da comunicare a noi tutti.

Scrive Papa Francesco: «Dopo la pandemia, il rischio è quello di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più "gli altri", ma solo un “noi”». Sulla stessa linea si pone il recente contributo di Ferruccio De Bortoli, pubblicato sempre sul numero 250 di «Scarp de’ tenis», quando dice: «Il capitale sociale di un Paese cresce con atti solidali, con i gesti disinteressati, frutto della buona volontà e di un cuore aperto. Non di un calcolo di convenienza o nella fredda determinazione dell’ipotetico risultato. Il dono è anche uno slancio dell’anima, non solo un investimento nel bene. Esistono sempre alternative migliori, ma spesso non c’è il tempo per valutarle. E chi ha bisogno è una persona, solo una persona. Quando un capitale sociale è robusto, diffuso — come testimoniano le tante realtà del Terzo settore — non stanno bene soltanto le persone assistite, ma vivono meglio anche i donatori e la società di cui fanno parte».

Ma quanto è stata trascurata, nel nostro tempo, la dimensione del dono? Il quadro sociale che è emerso in questi anni, e che si è profondamente modificato a causa della recessione economica e della devastante pandemia, è un quadro fatto di tante ombre e poche luci. Per immaginare, al contrario, un mondo migliore, e per descrivere una società pienamente inclusiva occorre allora mettere insieme, in un unico grande affresco, il “mondo di sopra”, di coloro che ce l’hanno fatta e quello “di sotto”, dei sommersi. Solo così potremo guardare avanti con serenità e immaginare un futuro migliore.

E allora, insieme agli auguri per l’anniversario di questo giornale, voglio tornare a quella straordinaria immagine che Papa Francesco ha donato a Scarp nell’intervista che ci ha rilasciato nel 2017: «Mettiamoci nelle scarpe degli altri».

Perché, appunto, gli altri siamo noi.

di Stefano Lampertico,
direttore di «Scarp de’ tenis»


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