L'OSSERVATORE ROMANO
Insegnare l’accoglienza
Papa Francesco richiama nella Fratelli tutti la necessità di affrontare la questione migratoria in termini di «responsabilità fraterna». E denuncia la crisi di «fraternità» nella cultura corrente, europea e non solo. Forse nessun altro fenomeno come quello delle migrazioni investe più chiaramente il senso della fraternità, ovvero la sua attuale crisi. L’occasione del centosessantesimo anniversario de «L’Osservatore Romano», cui rivolgo i miei auguri più cordiali, mi pare ideale per affrontare senza troppi giri di parole questo tema decisivo.
Un grande sociologo contemporaneo, Alessandro Pizzorno, ha magistralmente spiegato nel suo saggio Lo straniero come metafora come il migrante ci riveli a noi stessi. Insomma, ci smascheri. Ci dica chi siamo davvero. Nelle parole di Pizzorno, «straniero è colui il cui sguardo è incapace di farci provare vergogna». In casi estremi, a venire negata non è solo la pertinenza alla confraternita umana, ma perfino la stessa umanità del migrante. Non esiste come persona, ma come categoria specifica: “il siriano”, “l’afghano”, il “nigeriano”. Classificazione che esclude il riconoscimento della personalità altrui. Il migrante, colui che da fuori penetra il nostro spazio di casa, viene così oggettificato, defraudato della sua identità specifica.
Perché questa chiusura? È un dato di specie? Una caratteristica umana? Niente affatto, al di là dell’umano riflesso che teme l’ignoto. È espressione di culture, di tradizioni, di costumi radicati in profondità. Quindi capaci di evolvere o involvere nel tempo e nello spazio. Così come non esiste una fraternità spontanea, non esiste nemmeno un rifiuto spontaneo del prossimo. Ogni Paese ha in questo campo la sua storia e ne avrà un’altra in futuro, perché nulla è meno statico del modo di rivolgersi allo straniero.
In gioco è l’identità. Che in alcuni Paesi e sotto alcuni regimi viene vissuta in termini esclusivi. Non cattolici, nel senso stretto, etimologico del termine. Senso che racchiude in sé la radice del concetto di fraternità universale; Ecumenica.
Oggi si sente spesso echeggiare, a latitudini e in contesti diversi, la domanda decisiva: «Chi siamo noi?». Sotto questo titolo il famoso politologo americano Sam Huntington pose le sue riflessioni sulla crisi del ceppo bianco-anglosassone-protestante quale perno socioculturale e politico degli Stati Uniti d’America. Porsi questo interrogativo rivela una crisi. Un dubbio esistenziale. Allo stesso tempo, conferma che almeno in certe culture l’identità è valore non negoziabile. Ma non può esistere un’identità determinata una volta per tutte. E questa identità non può escludere per principio l’apertura al “fratello” straniero. Qui si coglie il valore del dato culturale, per sua natura in continua evoluzione.
Oggi in Occidente e non solo sembra dominante l’idea che “noi” esistiamo e possiamo esistere perché non siamo “gli altri”. In termini astratti, ogni determinazione è una negazione, e viceversa. Ma nella (breve) esistenza concreta di ogni persona questa regola non si taglia con l’accetta una volta per tutte. Specie quando parliamo di identità collettive, le regole rigide lasciano spazio ai tumulti della storia. In altre parole: l’identità può esprimersi nella rigida chiusura verso lo straniero, o nella sua sottomissione, come pure nell’apertura, nell’accoglienza. Per un cristiano, questa è carità. Per chi non lo è, prevale il sentimento di appartenere a comunità plurime, in cui al nucleo centrale si possono aggregare diversi gradi di adesione a qualcosa di più ampio e di relativamente diverso, ma non alieno.
“Fratelli”, nel senso di Francesco non si nasce, si può diventare. Entro limiti più o meno ampi, e mai definitivamente. Qui interviene, o dovrebbe intervenire, il fattore culturale. Nei popoli più deboli o che si sentono vitalmente minacciati, l’emigrante è comunque un potenziale pericolo. Nei popoli più ricchi, come noi italiani ed altri europei, il migrante viene spesso accettato nella pura dimensione economica. Interessano le sue braccia, meno la sua mente, ancor meno il suo cuore. Come disse uno scrittore svizzero, Friedrich Dürrenmatt, di fronte al flusso di migranti lavoratori nel suo Paese: «Cercavamo braccia, sono arrivati uomini».
Rispetto all’arrivo di popolazioni allogene, la nazione magnete può reagire in tre modi: respingendo, mettendo la testa sotto la sabbia, o accogliendo. L’accoglienza non è necessariamente fraterna. E non solo perché spesso limitata all’inclusione nel sistema produttivo, in posizione generalmente secondaria, se non di brutale sfruttamento. Ma perché, spesso anche in persone di buona volontà, tende a dimenticare il tratto decisivo che trasforma l’impulso ad accogliere, o la sua molla utilitaristica, in premessa di convivenza. Coltiva l’interesse per il prossimo.
Il migrante diventerà parte viva e consapevole della comunità di arrivo quando gli verrà riconosciuta la sua storia. Quando sarà accolto con la curiosità empatica che persone e collettività forti e mature tendono a dimostrare verso lo straniero. Almeno finché questo non viene visto come avanguardia di una comunità o di una nazione che cerca di sopraffarti.
L’invito di Papa Francesco alla fraternità presuppone quindi, al di là della fede di ciascuno, la disponibilità nell’accogliere il prossimo come dotato di una sua specifica identità altrettanto profonda e legittima della tua. Non sarà mai abbastanza ricordato quanto questo valore debba appartenere non solo alla cultura civica, ma alla pedagogia collettiva di una nazione. Ecco un compito al quale i decisori politici potrebbero dedicarsi. Tanto più oggi che disponiamo — via i fondi del Next Generation EU — di risorse potenzialmente formidabili per ricostruire il nostro sistema scolastico e formativo. L’Italia può essere di esempio ad altri in questo compito necessario al futuro della nostra nazione e alla sua funzione nel mondo.
di Lucio Caracciolo,
direttore di «Limes»
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