Le parole della guerra: Genocidio
Una parola che inquieta

Raccontare le guerre è sempre difficile. Raccontare la guerra che da diciotto mesi ormai affligge la Terra Santa è ancora più difficile. Perché le opinioni polarizzate che questa guerra suscita a ogni latitudine costringono a un uso ponderato delle parole che non finiscano con l’esacerbare ancora di più le posizioni. Forse la più discussa e discutibile è la parola “genocidio”. Una parola che inquieta e interpella. Porsi delle domande è sempre legittimo e mai scandaloso. Se sono poste con la buona fede di chi vuole capire, senza precomprensioni o strumentalismi. Per questo ospitiamo in questa pagina due interviste, di diverso tono, a due studiosi israeliani, Tsvia Peres Walden e Lee Mordechai, e un commento di un giurista di nota competenza come il professor Vincenzo Buonomo. Con un’avvertenza necessaria. Se, come i nostri interlocutori rilevano, l’“intenzionalità espressa” è un carattere distintivo del concetto di genocidio, non ci si può esimere dal ricordare che lo sterminio del popolo ebraico in Palestina è evocato dallo statuto di Hamas del 1988, solo parzialmente temperato dalla revisione del 2017. E l’indistinto massacro del 7 ottobre di civili e inermi, colpevoli della sola appartenenza al popolo ebraico, ne è la tragica attuazione. Ci sforziamo nel nostro lavoro informativo di coltivare soprattutto parole di speranza e di pace. Ma la pace non può prescindere dalla giustizia e dalla verità. In un contesto in cui la verità appare plurale e irraggiungibile, cerchiamo un percorso che privilegi la conoscenza rispetto alla tifoseria.
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