· Città del Vaticano ·

A colloquio con la psicolinguista Tsvia Peres Walden

«Non è genocidio
ma i palestinesi soffrono»

 «Non è genocidio ma i palestinesi soffrono»  QUO-058
11 marzo 2025

da Gerusalemme
Roberto Cetera

«Mi lasci intanto dire che ciò che sta accadendo a Gaza da ormai quindici mesi è orribile. Un qualsiasi israeliano di buon senso non può condividere il modo in cui si sta conducendo questa guerra». Esordisce in questi termini Tsvia Peres Walden in una conversazione sulle caratteristiche del conflitto in corso a Gaza. La professoressa Peres, figlia dell’ex primo ministro e poi presidente israeliano, dal 2007 al 2014, Shimon Peres, è una psicolinguista, quindi l’interlocutore giusto per capire se la violenta reazione israeliana al massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023 abbia superato quella linea rossa che la separa dalla pratica del genocidio e quindi se l’uso di questo termine sia corretto. Tsvia è anche impegnata come militante nel movimento per la pace israeliano.

Professoressa Peres, perché non è condivisibile la conduzione israeliana della guerra?

Perché non è più configurabile come autodifesa. Il numero di vittime civili e innocenti è terribile e inaccettabile. Come lei sa, c’è una disputa sul numero effettivo di morti civili in questi quindici mesi di guerra ma io penso che, se anche fossero la metà di quelli che vengono dichiarati da parte palestinese, sarebbe comunque un’enormità tragica. Si è superato un limite come mai prima in questo conflitto lungo settantasette anni.

Però lei non è d’accordo nel definirlo un genocidio.

No, non sono d’accordo. E per quattro ordini di motivo che cerco di spiegare. Genocidio, secondo le convenzioni internazionali, è un termine che viene usato in relazione alla pratica, o al tentativo di pratica, di distruzione totale o anche parziale di un popolo, di un gruppo etnico o religioso o comunque identitario. Non credo che in Israele ci sia una siffatta dichiarata intenzione. L’attuale governo persegue una politica di emarginazione, sottomissione, forse di allontanamento dei palestinesi, ma non di eliminazione di questo popolo.

Eppure vi sono ministri di questo governo, come Bezalel Smotrich o Itamar Ben-Gvir, che non fanno mistero addirittura di disconoscere il diritto all’esistenza del popolo palestinese.

Sono espressione di una minoranza estremista religiosa che non rispecchia la volontà della stragrande maggioranza del popolo israeliano. Purtroppo in questa fase rivestono un ruolo condizionante in seno al governo di Netanyahu ma, ripeto, non hanno nulla a che vedere con il carattere e la storia di Israele. Vorrei ricordare anzi che, secondo recenti sondaggi, il 71 per cento degli israeliani vuole la fine della guerra a Gaza e il ritorno degli ostaggi.

Quali altre ragioni per negare l’esistenza di un genocidio?

In secondo luogo dobbiamo sempre tenere a mente che questa nazione è nata da un vero, tragico genocidio che dopo ottant’anni ancora vive come ferita non rimarginabile nella carne e nel sangue degli ebrei discendenti. Il genocidio della Shoah è incomparabile con qualsiasi altra forma di violenza ed è una memoria che immunizza il popolo ebraico da una possibile ripetizione verso altri. Per gli ebrei il genocidio è un tabù. Questo ovviamente non può giustificare la marginalizzazione e sopraffazione che viene metodicamente usata nei confronti dei palestinesi. Mantengo tuttavia un orientamento di speranza, che si possa in un futuro non lontano riconoscerci, rispettarci e convivere pacificamente.

E gli altri due motivi?

Il terzo riguarda l’intenzionalità: in tutti i casi precedenti di genocidio l’intenzionalità è stata sostenuta dalla premeditazione esplicitata della parte aggredente. In questo caso non c’è stata alcuna premeditazione e quindi senza di essa non può darsi alcuna intenzionalità da parte israeliana. L’ultimo motivo è, diciamo, di opportunità. Il mio campo di studi è la psicolinguistica e in tale veste posso dire che proferire un’accusa di genocidio, ora, non aiuta al raggiungimento della pace. Accusare Israele di genocidio significa porsi in quella scia divisiva, in quella sciagurata polarizzazione che è cifra di questi nostri tempi, che inibisce la qualità del dialogo e con esso la possibilità della pace. Condannare la violenza di Israele a Gaza è un conto ma l’accusa di genocidio rischia di suscitare una controreazione che allontana la possibilità di un confronto aperto e positivo tra le parti. Abbiamo bisogno di parole di pace, non di accuse in questa fase.

Ci sarà mai una vera, definitiva pace in questa terra?

Penso di sì, a condizione però di essere capaci a saper riconoscere la reciproca sofferenza. Per questo, per quanto mi riguarda, penso che le mie obiezioni all’uso del termine “genocidio” risultino più efficaci nella misura in cui riconosco e rifiuto pubblicamente le sofferenze che Israele infligge al popolo palestinese.