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La storia di “mister Beppe” che allena da cinquant’anni squadre inclusive e intergenerazionali mettendo al centro la persona e il progetto di “comunità educante”

Manuale per (provare a)
salvare il calcio

 Manuale  per (provare a) salvare il calcio  QUO-209
12 settembre 2023

«Non guardiamo alla maglia che portiamo ma alla persona che sta dentro a quella maglia» è stato il primo insegnamento — certo, non solo sportivo — che al mister Beppe ha testimoniato il suo mentore calcistico, Sandro Piccione, presidente del Centro sportivo italiano di Torino. «Era il tempo in cui il cardinale Michele Pellegrino, dopo un percorso sinodale, aveva pubblicato la lettera pastorale Camminare insieme», fa presente. Il Beppe parla della sua squadra come di una «comunità educante». Andando controcorrente rispetto a chi afferma che il calcio non è più quello di una volta ed è persino complicato chiamarlo sport, tra eccessi di ogni tipo. Ed ecco la storia del mister Beppe che, proprio per il suo stile di vita fatto di discrezione — assai lontano dalle luci del protagonismo — ha preferito fare, nell’intervista a «L’Osservatore Romano», un passo indietro riguardo il suo stesso nome e quello della squadra che allena.

Da Camminare insieme sono passati più di cinquant’anni...

E infatti sono ancora in piena attività come mister dopo cinquant’anni anni e una sessantina di stagioni con squadre di adulti — scalcinate e/o vincenti — iscritte al Centro sportivo italiano (Csi), alla Unione italiana sport popolari (Uisp) o, da decenni, alla Federazione italiana gioco calcio (Figc).

Che cosa serve, anzitutto, per fare il mister di una squadra di calcio e farlo bene?

La prima qualità di un mister, a mio avviso, è non avere certezze e sforzarsi continuamente di interpretare la realtà in divenire. Con l’obiettivo di divertirsi e crescere tutti insieme, calcisticamente e umanamente. Stagione per stagione. Il tempo passa e le generazioni che si affacciano sono sempre diverse dalle precedenti. Dopo la traumatica esperienza del Covid le difficoltà sono nuove e in parte da decifrare. Oggi ho convinzioni parziali e temporanee, molto diverse, per certi aspetti, da quelle di un lustro fa.

Una squadra, in fondo, è una piccola comunità sociale in continua evoluzione.

Lo “stile” che si propone, intrinsecamente dipendente dal gruppo squadra preesistente, va aggiornato con arrivi di giocatori o calciatori giovani. Una squadra intergenerazionale è di più difficile gestione, ma garantisce il mantenimento e il consolidamento evolutivo dei valori umani e calcistici. È l’“essere” dei più giovani che infatti influenza, plasma e migliora la qualità dell’esperienza vissuta insieme. Quest’anno abbiamo vinto la Coppa disciplina del Comitato regionale piemontese della Figc davanti a centinaia di altre squadre. Vuol dire che gli stress individuali non li abbiamo riversati in campo contro arbitri, giocatori avversari o pubblico. L’autocontrollo è una premessa sostanziale per divertirsi e per raggiungere soddisfacenti risultati calcistici.

I giovani. Che cosa cercano nel calcio?

Queste nuove generazioni non vogliono le urla del mister ma il sussurro, il dialogo personalizzato. Non gradiscono le retoriche motivazionali e bellicistiche, tipiche dei professionisti e dei primi anni di questo millennio, che tanti danni continuano a fare nelle scuole calcio e nelle famiglie che soccombono a questa narrazione. Molti mister di serie A non sembrano essersene accorti.

Allenare i ventenni è più facile?

È più facile allenare ventenni indenni da questi danni, ma bisogna armonizzare lo stile coi trentacinquenni che portano fieramente le medaglie di tanta violenza sopportata, superata o imposta in tanti difficilissimi campi a inizio secolo, quando risse e agguati nei parcheggi erano frequenti e misuravano “la valentia” nonché il rispetto del mondo esterno. I ventenni oggi sono molto intelligenti, fragili emozionalmente, dispersivi spesso, pervasi da un senso di non adeguatezza e tendenzialmente, purtroppo, autolesionisti. Ma sono anche ricettivi, sensibili e inclusivi. Stentano a lungo prima di esprimere pienamente le loro capacità calcistiche. Hanno un rapporto con il competere meno egocentrico ed egoista, ma di difficile declinazione perché ambiziosi anelatori di una qualità complessiva del gruppo squadra.

Quali sono i suoi obiettivi da mister?

La principale difficoltà di ogni inizio stagione è spiegare e convincere che vincere la domenica non è l’obbiettivo primario ma è la “conseguenza”, la risultante del giocare bene insieme, divertendosi. Alcuni giocatori, dopo una vittoria, appena entrati nello spogliatoio e ancor prima della doccia, già compulsano le app per verificare i risultati e la classifica.

L’impresa più difficile di ogni stagione è convincere i giocatori che il risultato non è tutto.

Sì, è spiegare e convincere che il divertimento è interiore e non dipendente dalla percezione pubblica. Aiutare ad armonizzare il divertimento, che ognuno percepisce diversamente dall’altro, è l’impresa più difficile di ogni stagione. «Se quando andate a casa sapete di aver dato tutto quello che potevate alla nostra squadra, ai vostri compagni, secondo me siete stati vincenti» è la frase che uso per cercare questa armonizzazione. «Dare prima di ricevere» è la regola principe. A partire dal primo passaggio a centrocampo quando l’arbitro fischia.

Una squadra è — o dovrebbe essere — una comunità con una visione condivisa.

Quando la lettura che si propone viene condivisa aumenta la crescita dell’autostima di gruppo e individuale. Ad esempio, ci sono alcune frasi, con priorità alla salute e alle esigenze di vita, che hanno caratterizzato e caratterizzano la fase attuale dopo l’esperienza della pandemia: «Dopo 18 mesi di inattività non dovete arrivare ai limiti delle vostre potenzialità fisiche sennò vi infortunate»; «Il riscaldamento è obbligatorio perché non dovete infortunarvi e conta per la formazione»; «Dopo una giornata in fabbrica, lavorando in piedi, siete stanchi, fate giocate semplici»; «Guardare il gioco e indirizzare il primo controllo della palla è già la scelta della prossima giocata»; «Se il pubblico vi insulta la miglior risposta è un gol senza esultanza a mò di scherno sotto la tribuna».

Tutto bene. Però nel calcio conta anche la tecnica, il saper giocare.

Allenata la mente, e armonizzata la capacità di leggere le situazioni e il contesto esterno, va promossa la disponibilità e l’aspirazione individuale ad allenare le proprie qualità calcistiche. Gli allenamenti sono personalizzati e facoltativi, in base a qualità e deficit, sulla base di un programma di lavoro concordato e scritto. Allenamenti di reparto sono in genere utili ed eseguiti durante il campionato. Allenamenti di tutta la rosa in contemporanea è, per ora, un’utopia.

Allenamenti facoltativi?

Gli allenamenti sono facoltativi perché molti, per lavoro o situazioni personali, non potrebbero partecipare. L’assenza o la presenza all’allenamento non sono condizioni cogenti per l’essere in formazione la domenica. L’applicazione per il miglioramento della propria prestazione qualifica il contributo ai risultati e va incanalata verso obbiettivi di squadra.

E poi c’è il leggendario appuntamento con la “partitella del giovedì”…

La “partitella del giovedì” la saltano in pochissimi. A volte vengono cambiati i turni di lavoro pur di esserci. E gli ospiti sono sempre graditi e possono richiedere la possibilità di partecipare entro il martedì. Non vengono date “pettorine”. Il mister propone l’obiettivo tecnico prevalente e durante la “partitella”, in genere, osserva e se interviene o interrompe il gioco vuol dire che stanno emergendo situazioni sbagliate. I consigli tecnici sono proposti sussurrando ai singoli mentre il gioco prosegue. In prossimità di partite di campionato vengono richieste situazioni di gioco particolari. Quando l’andamento di tutto è positivo la formazione per la domenica viene comunicata nell’intervallo della “partitella”. Infine, al termine della “partitella” i giocatori che lo desiderano vanno, con il mister, a mangiare un “panuozzo” e a bere qualcosa. Insieme. Rarissimamente in queste occasioni si parla della squadra, mai degli impegni comuni di campionato. Le “partitelle” e il “panuozzo” proseguono anche a campionato finito.

“Aggiungi un posto in campo...” verrebbe da dire per questo stile di accogliere ospiti nella “partitella” settimanale.

Gli ospiti sono la linfa nuova che stimola emulazione e comprensione dell’altro. A volte arrivano calciatori forti, a volte persone che potrebbero essere considerate “casi sociali”. Tanti sono stati gli stranieri che, spesso non sottoscrivendo l’impegno annuale, hanno avuto ore di divertimento. Susseguendosi le presenze come ospite si realizza un avvicinamento progressivo all’eventuale impegno di squadra con tesseramento e partecipazione al campionato. Il calciatore che ha accompagnato l’ospite ha il compito di seguire quel rapporto e quella relazione.

Mister, a fine stagione è sempre e comunque soddisfatto?

Avendo allenato giocatori fortissimi e schiappe clamorose, avendo vinto e perso campionati, avendo conseguito promozioni e retrocessioni, valuto che una stagione sia stata positiva, e quindi anch’io sia stato vincente, allorquando il maggior numero dei componenti della rosa si sia avvicinato al massimo delle proprie potenzialità o sia riuscito a migliorarle. Quando poi uno di questi giovani intelligenti e sensibili ti dice «Beppe, guarda che forse siamo una comunità educante e la nostra aggregazione è elevatrice», vuol dire che il suo benessere è migliorato, che il suo protagonismo è ben indirizzato, che il calcio l’ha fatto crescere.

di Giampaolo Mattei


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