· Città del Vaticano ·

Lettere dal direttore
Tornare a ridere e a piangere non solo con Charlot

Affinché la poesia
sfondi tutti gli steccati

 Affinché la poesia sfondi tutti gli steccati   QUO-152
03 luglio 2025

Una volta uno dei figli di Marco Lodoli, ancora bambino, domandò, fulmineo e fulminante come solo i bambini sanno essere, allo scrittore romano: «Perché le cose belle fanno sempre un po’ piangere?». Il ricordo dell’episodio sta bene inserito nell’articolo pubblicato qui a fianco a commento del film di Chaplin La febbre dell’oro, perché, scrive Lodoli, «il cinema di Chaplin è la sintesi perfetta di bellezza e malinconia, sorrisi e lacrime, gioia e tristezza».

Quest’anno cade il secolo del film di Chaplin che sei anni dopo, nel 1931, realizzò forse il suo capolavoro assoluto, Luci della città, continuando a raccontare le disavventure del piccolo vagabondo Charlot armato di bastone e bombetta ma anche di buon umore e una tonnellata di speranza. Il poster che accompagnò in Italia questa pellicola suonava così: «Riderete da bambini, piangerete da adulti». Riso e pianto non sono opposti ma complementari. Spesso ridiamo “fino alle lacrime”, anzi sono proprio quelle le risate più memorabili. E come ricorda il vecchio e saggio Gandalf «non tutte le lacrime sono un male», poche cose sono più liberatorie e benefiche di un pianto vero, autentico. Il punto è questo: il riso e il pianto sono momenti di verità, di svelamento, eppure siamo riusciti a diventare strani animali capaci di piangere e ridere per finta. Ed eravamo, noi esseri umani, gli unici animali a saper piangere e ridere. Penso che dobbiamo riprendere il contatto con questi due gesti che abbiamo in qualche modo rimosso. Non sappiamo più ridere, non riusciamo più a piangere. Al punto che nel suo grido dolente pubblicato qui a fianco, il giovane Maurizio Rampa si e ci chiede: «Cosa ne sarebbe oggi di un film come Luci della città, probabilmente il film più bello mai fatto?».

Forse perché abbiamo distinto le due cose, il riso e il pianto, invece di tenerle insieme, proprio come fa la vita che è sempre come indica quella famosa statua ellenistica, il Cavaspina o Spinario raffigurante un giovane seduto mentre, con le gambe accavallate, si sporge di fianco per togliersi una spina dalla pianta del piede sinistro, un’opera d’arte che ha immortalato il momento trepidante della liberazione, un gesto che tiene insieme riso e pianto, gioia e dolore. Nella vita rimane sempre quell’imprinting originario descritto con precisione da Gesù nel Vangelo di Giovanni: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Giovanni 16,20-23).

L’illusione di scartare il dolore separandolo dalla gioia ci ha reso meno generativi e meno aperti alla ferita della bellezza. Nel 2012 nel suo saggio Istruzioni per l’uso del lupo Emanuele Trevi lo aveva detto con chiarezza e precisione: «Temo che il nostro modo di pensare la vita sia troppo anestetico, e questa parola mi cade dalla penna molto a proposito, perché indica due cose: fuga dal dolore e fuga dalla bellezza. Secondo me questo è un problema politico, anzi il problema politico. (...) Abbiamo troppa paura del dolore e troppa fiducia nel buon senso. Troppe stampelle. Una vera civiltà dovrebbe essere il luogo dove tutto ciò che è più debole viene accolto e protetto. Noi dovremmo essere venuti al mondo per dividere il pane con i più poveri, far giocare i bambini e dare una cuccia agli animali. La nostra vita non passerebbe invano se avessimo un’idea poetica della politica. E invece, non lasciamo mai che la poesia sfondi gli steccati dentro i quali abbiamo circoscritto arbitrariamente la nostra vita».

Un mondo anestetizzato che fugge dalle ferite del dolore e della bellezza, che ci vede come sordi o muti con le nostre ghiandole lacrimali inaridite e le mascelle una volta pronte per il riso che stanno lì, bloccate, intorpidite. Per riabilitarci al pianto e al riso ci possono aiutare la bellezza e l’arte, non solo quella del cinema semplice e “fulmineo” di Charlot, ma anche delle canzoni della musica “leggera”, degli artisti pop, come ad esempio Brunori che in Secondo me confessa la sua paura: «Se c’è una cosa che mi fa spaventare / del mondo occidentale / è questo imperativo di rimuovere il dolore», una rimozione che nasce dall’ossessione del controllo, sembra aggiungere nei versi de La verità: «Te ne sei accorto, sì? / Che tutto questo rischio calcolato / Toglie il sapore pure al cioccolato / E non ti basta più / Ma l’hai capito che non serve a niente / Mostrarti sorridente agli occhi della gente / E che il dolore serve / Proprio come serve la felicità». Eppure lo sappiamo, lo canta Jovanotti nella canzone più popolare di questo 2025: «Senza un po’ di rischio non ha senso niente».

Allora facciamoci coraggio e, fischiettando qualche motivetto popolare, usciamo insieme dall’anestesia in cui incautamente e inavvertitamente siamo caduti non ricordando più nemmeno quando.

A.M.


Leggi anche:

Gentilmente in bilico
di Marco Lodoli

Il finale in un fiore
di Maurizio Rampa