· Città del Vaticano ·

Sarebbe possibile oggi realizzare capolavori come quelli realizzati da Charlie Chaplin?

Gentilmente in bilico

 Gentilmente in bilico  QUO-152
03 luglio 2025

Un secolo fa usciva «La febbre dell’oro»


di Marco Lodoli

Rarissimi sono gli artisti capaci di dare forma alla grazia, cioè a quel momento unico in cui l’ispirazione, l’invenzione, il sentimento si fondono e diventano qualcosa di tanto inatteso e lieve da illuminare la vita di tutti coloro che assistono al miracolo poetico. Penso alle Madonne del Bellini e di Raffaello, alla Primavera di Botticelli, al concerto per due violini di Bach, alle ninfee di Monet, a certe poesie di Sandro Penna, al girotondo finale di Otto e mezzo di Fellini. Ma forse l’espressione più alta della grazia, così gratuita, minima eppure assoluta, è «la danza dei panini» di Chaplin nel film La febbre dell’oro, che uscì nel 1925.

Nella baracca in mezzo alla neve, il povero vagabondo aspetta per la cena dell’ultimo dell’anno la ragazza tanto amata insieme alle sue amiche, ma lei dimentica quell’appuntamento, festeggia altrove, tra tanta gente, e lui solissimo si addormenta e la sogna: l’amore è accanto a lui, dentro di lui, nel sogno il vagabondo è così felice che non riesce a dirle nulla, solo a offrirle un piccolo numero da circo domestico, uno spettacolo che dura meno di un minuto, ma che resterà per sempre nei nostri ricordi. Infilza due panini con due forchette e il ballo inizia, forchette e panini diventano gambe e piedi che il vagabondo fa danzare sul tavolo, mossi dalle sue mani leggere e da una musica allegra, saltellante. Il poco o nulla diventa qualcosa di straordinario, una creazione che ci fa dimenticare tutta la pesantezza della vita, pura grazia che scavalca ogni pena e ci riconcilia con l’esistenza.

Guardiamo quel balletto incredibile e finalmente pensiamo che si può essere felici, basta posare ogni inutile risentimento, ogni vano desiderio. È una scena che fa bene rivedere, per quanto è piena di amore e riconoscenza. Sull’orlo dell’abisso si può danzare sulla punta delle forchette, anche nella solitudine si può regalare al mondo il proprio irripetibile talento. La febbre dell’oro è un capolavoro assoluto, sono passati esattamente cento anni da quando Chaplin ha girato questo film eppure sembra un’opera più attuale e necessaria di tanto cinema contemporaneo.

I cercatori d’oro affrontano il gelo dell’Alaska per provare a sopravvivere. Li vediamo nella prima scena scalare in fila come formiche un monte innevato: la speranza è quella di trovare qualche scaglia preziosa, una manciata di quel lucente metallo, e avanzano perennemente in bilico tra la vita e la morte. È la selezione darwiniana, è il sogno americano, molti si perdono, pochissimi ce la fanno. Tra loro c’è anche il nostro vagabondo, vestito come sempre con la sua marsina e la sua bombetta, con il bastoncino che ruota nell’aria gelida. Cerca il benessere e incontra solo la fame più nera.

Fantastica è anche la scena in cui Chaplin/Charlot prepara un pranzo cucinando uno dei due suoi scarponi: in fondo è cuoio, potrebbe saziare almeno per un poco. E così divide lo scarpone con il compagno di baracca, un po’ di sale ed è pronto a essere masticato, e i lacci bolliti possono diventare quasi degli spaghetti da arrotolare con la forchetta. La miseria, la fame, il freddo sono i nemici di sempre, e Chaplin prova a sconfiggerli con la fantasia, senza mai lamentarsi, quasi contento per quello scarpone semicommestibile. Ma il compagno è un omone grande e grosso che non riesce a sfamarsi con la suola di una scarpa, e d’improvviso, stravolto, vede il piccolo vagabondo diventare una grande gallina, un pasto succulento.

È il cinema, arte popolare, semplice, meravigliosa, capace di trasformare pensieri e sentimenti in immagini sintetiche e memorabili. La febbre dell’oro mostra persino un doppio omicidio, perché la lotta per la sopravvivenza produce anche crudeltà, spietatezza, violenza cieca. Ma omnia munda mundis, tutto è puro per chi ha il cuore puro, e Chaplin ha saputo raccontare in ognuno dei suoi film che solo il bene permette di affrontare e superare ogni ostacolo, che solo chi sta dalla parte dell’innocenza può trovare salvezza per sé e per gli altri. Ricordo sempre il consiglio che mi diede un amico riguardo all’educazione artistica dei figli: «Chaplin e Beatles, si parte da lì, non puoi sbagliarti, semplicità e bellezza». E ricordo anche cosa mi domandò una volta uno dei miei figli, ancora bambino: «Perché le cose belle fanno sempre un po’ piangere?». E il cinema di Chaplin è la sintesi perfetta di bellezza e malinconia, sorrisi e lacrime, gioia e tristezza.

La scena finale della baracca che oscilla come un’altalena tra la salvezza e il burrone è l’immagine perfetta della nostra vita, senza commenti superflui, senza pesanti teorie, solo una baracca che dondola nel vuoto, solo incertezza e poesia. In un mondo che mostra la stupidità dei muscoli, la tragica volontà di potenza, la brutalità delle bombe e della distruzione, recuperiamo i film di Chaplin, facciamoli vedere nelle scuole, mostriamoli alle nuove generazioni. Quell’omino gentile è il nostro eroe, non sa niente, non è quasi niente, ma ha un cuore grande e ci fa amare la vita.