· Città del Vaticano ·

Sui passi della “Rerum novarum” attraverso la stampa dell’epoca

Quell’idea semplice
che rivoluzionò le coscienze

 Quell’idea semplice  che rivoluzionò le coscienze  QUO-112
15 maggio 2025

«Il lavoro non è una merce»


di Lucio Brunelli

La questione sociale, a due anni dalla fondazione della Seconda Internazionale, era al centro delle dispute degli intellettuali e delle preoccupazioni politiche dei governi liberali. Il 1° maggio 1891 le manifestazioni operaie, svoltesi per la prima volta in modo solenne e generale in Italia, erano spesso sfuggite di mano alla dirigenza repubblicano-democratica e socialista. Leaders anarchici erano riusciti, in alcune città, a incitare i dimostranti allo scontro con le forze dell’ordine; a Roma, negli incidenti seguiti al comizio in piazza Santa Croce in Gerusalemme, erano morti due lavoratori.

In tale arroventato clima sociale e politico la pubblicazione, all’inizio del 1891, del libro di Francesco Saverio Nitti Il socialismo cattolico contribuì ad accrescere l’aspettativa per l’annunciatissima enciclica papale. Il mondo culturale, di matrice laica e socialista, veniva a conoscenza di un fenomeno nuovo, che fino ad allora aveva interessato geograficamente soprattutto l’Europa continentale: un vivace movimento di idee e di creatività sociale promosso da personalità cattoliche, e non riconducibile alle più antiche ed elitarie formule utopistiche del “socialismo cristiano”.

I pionieri del nuovo attivismo sociale erano tutti al di sopra di ogni sospetto dottrinale. Il cardinale inglese Henry D. Manning era stato uno dei più intransigenti assertori della infallibilità pontificia al Concilio Vaticano I; il cardinale svizzero Gaspar Mermillod e il vescovo tedesco Wilhelm Emmanuel von Ketteler avevano sofferto personalmente l’asprezza dei vari Kulturkampf che considerarono il legame con Roma come un attentato alla sicurezza nazionale; Albert de Mun e l’amico René de La Tour du Pin, fondatori dell’Opera dei circoli operai cattolici francesi, non esitavano a contestare, a cento anni ormai di distanza, i «falsi dogmi dell’89».

I “socialisti cattolici” insomma, erano “ortodossi”; la loro intensa azione sociale, che pure incontrava tante difficoltà dentro e fuori il mondo cattolico, era ispirata da una fede senza tentennamenti nel Papa e nella Chiesa.

Quale posizione avrebbe assunto Leone XIII nei loro confronti? Il testo della Rerum novarum, firmato dal Papa il 15 maggio 1891, fu in realtà reso noto tramite tre numeri consecutivi de «L’Osservatore Romano», in latino, dal 19 al 21 maggio; una sintesi ufficiosa, subito ripresa da tutti i giornali, comparve il 16 maggio sul quotidiano cattolico tedesco «Germania».

Leone XIII, rompendo gli indugi presenti nella scuola cattolico-sociale che ancora al congresso di Liegi dell’anno precedente si era trovata divisa su questi temi, aveva sostenuto autorevolmente la liceità, dal punto di vista cristiano, di una coraggiosa legislazione sociale: riduzioni dell’orario di lavoro, regolamentazione del lavoro dei ragazzi e delle donne, «giusto salario», riposo festivo. Rivendicazioni che oggi appaiono scontate ma non lo erano affatto ai tempi di Leone XIII. Alla fine dell’Ottocento la stessa idea che lo Stato dovesse o potesse intervenire nella vita sociale per difendere con apposite leggi le condizioni di vita degli operai, suonava come un pericoloso attentato alle immutabili regole dell’economia “classica”. Ne sapeva qualcosa Leonardo Murialdo che già nel 1869 aveva presentato al governo Lanza-Sella una petizione che invocava una legge protettiva del lavoro dei fanciulli in fabbrica; l’iniziatore delle società operaie cattoliche aveva dovuto aspettare ben diciassette anni per vedere approvata una legge che fissava a nove anni (sic) il limite minimo d’età per il lavoro in fabbrica e vietava quello notturno ai minori di dodici anni. Questa legge, peraltro così blanda e male applicata, era l’unico esempio di legislazione sociale esistente in Italia quando uscì la Rerum novarum. L’orario di lavoro oscillava dalle dodici alle quattordici ore medie giornaliere, il riposo festivo era praticamente sconosciuto, nessuna tutela pubblica soccorreva l’operaio in caso di malattia, invalidità e vecchiaia.

Se si tiene presente che il principale economista della linea liberista, Francesco Ferrara, ispiratore delle leggi di liquidazione dell’asse ecclesiastico, definiva il socialismo genericamente come una dottrina di interventi statali e comunitari minanti il principio del laissez faire, non meraviglia il fatto che alcuni settori della stampa liberale accusarono l’Enciclica di cedimento ai principi socialisti, benché Leone XIII avesse messo bene in chiaro la non compatibilità fra la dottrina sociale della Chiesa e la filosofia collettivista di Karl Marx.

«La Riforma», organo di stampa fondato da Francesco Crispi, parlò a più riprese della Rerum novarum come di una «Enciclica socialista». Il famoso economista e senatore Gerolamo Boccardo mise quasi sullo stesso piano «tutti i socialisti, da Carlo Marx all’autore dell’Enciclica sulla questione operaia» (Il socialismo contemporaneo, «La nuova Antologia», 16 ottobre 1891).

Una delle richieste della Rerum novarum sentita più in contrasto con gli indirizzi della scuola “classica” fu quella concernente «la fissazione del minum dei salari» come la definì «La Tribuna», quotidiano fondato dagli onorevoli Zanardelli e Baccarini, leaders liberali della corrente della “Sinistra storica”. Leone XIII aveva criticato la «ferrea legge dei salari che affida al libero gioco della domanda ed offerta di lavoro la determinazione della mercede» dell’operaio. Tale richiesta di un «giusto salario» fu giudicata una «concessione, teoricamente tanto ardita, quanto praticamente poco efficace, alle esigenze dei socialisti». Secondo «La Tribuna» la stessa dottrina sul diritto di proprietà enunciata dal Papa presentava ambiguità, perché «troppo incentrata sull’idea che la proprietà è figlia del lavoro» (L’Enciclica sulla questione operaia, 25 maggio 1891).

Dubbi e riserve sollevarono anche gli accenni dell’Enciclica al problema della limitazione legale dell’orario di lavoro. «Vediamo l’inutilità — commentò brusco “Il Corriere della Sera” — i pericoli, o i danni della soverchia ingerenza dello Stato in argomento siffatto, e soprattutto nella determinazione della giornata di lavoro» (Altre osservazioni sull’Enciclica del Papa, 9 giugno 1891). Le motivazioni addotte erano pressoché comuni: occorreva salvaguardare la nascente industria italiana dalla concorrenza internazionale, impedendo quella corrosione dei profitti che avrebbe frenato lo sviluppo economico del Paese. Che ciò comportasse lo sfruttamento senza regole di uomini, donne e bambini, non faceva problema, evidentemente.

Ma a impensierire i commentatori della stampa liberale fu soprattutto la parte conclusiva del documento pontificio, in cui Leone XIII definiva «degnissimi d’encomio» i cattolici che da tempo, in Europa, operavano per migliorare la condizione degli operai. Il «Corriere» parlò di «equivocità» contenute nel documento: «Ora sta il fatto che l’Enciclica fa una lunga difesa della proprietà individuale; e il socialismo la nega. E sta pure il fatto che il movimento per il quale il clero prese in mano la causa degli operai è movimento socialista per eccellenza. Il passaggio dell’Enciclica qui riportato cela l’equivoco. Il movimento socialista cattolico se ne farà una bandiera» (Altre osservazioni sull’Enciclica del Papa, 9 giugno 1981). Sulla stessa linea «L’Opinione», giornale con una storia prestigiosa, già portavoce della politica cavouriana e, quindi, delle correnti più ortodosse del conservatorismo italiano.

Il quotidiano, diretto da Michele Torraca, dedicò un lungo commento alla Rerum novarum. Sosteneva che l’importanza del documento non dipendeva tanto dall’autorità che lo aveva emanato quanto «dalla forza numerica ed intellettuale del grande partito cattolico, che aspettava forse la parola del Pontefice per riunirsi in un fascio e dirigere le forze, ora sparse in vari campi, al raggiungimento di uno scopo comune». Il vero pericolo per lo Stato liberale era visto in ciò che dall’Enciclica poteva nascere o crescere nella società: «Se fosse questo il punto d’arrivo della propaganda cattolico-sociale, concludeva allarmata “L’Opinione”, dovremo tutti plaudire ma appare, invece, questo il punto di partenza» (L’Enciclica pontificia, 28 maggio 1891).

Mezzo secolo dopo George Bernanos, nel suo Diario di un parroco di campagna, fece rievocare dal curato di Torcy l’Enciclica Rerum novarum con queste parole: «La famosa Enciclica di Leone XIII voi la leggete tranquillamente con l’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di quaresima. Alla sua epoca ci è parso di sentir tremare la terra sotto i piedi. Questa idea così semplice che il lavoro non è una merce, sottoposta alla legge dell’offerta e della domanda, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini come sul grano, lo zucchero e il caffè, metteva sottosopra le coscienze».


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