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La lotta contro la miseria dei cercatori di smeraldi nella provincia di Boyacá

Colombia
In corsa per un’illusione

TOPSHOT - Emerald seekers run after entering 'La Voladora,' a cage where the multinational ...
02 agosto 2024

La “corsa all’oro” evoca talvolta immaginari esotici e mitici. Solo che la foto di copertina che abbiamo scelto oggi non ci porta nel profondo West né nel xix secolo. Mostra, invece, quanto accade in una provincia della Colombia dei nostri giorni. E qui, la cosiddetta “corsa all’oro” è anche — bisogna dire ancora una volta — un drammatico tentativo di tirarsi fuori dalle secche della povertà e della miseria. Sperando nel colpo di fortuna, che però quasi mai arriva.

La città di Muzo, dipartimento di Boyacá, situato nella Cordigliera orientale a qualche centinaio di chilometri a nord di Bogotá, è considerata la capitale mondiale degli smeraldi. La maggior parte di quelli che finisce sul mercato mondiale si produce qui. Ma il luccichio delle preziosissime pietre, dalla caratteristica tonalità di verde, fa ricchi i proprietari delle cave e i titolari delle grandi aziende estrattive. Il popolo degli “altri” si accontenta delle briciole, o meglio degli scarti. Quelli che vengono lasciati nella melma del fiume Las Animas e costituiscono il terreno di caccia dei cercatori artigianali di smeraldi. Li chiamano “guaqueros”, con un termine pressoché intraducibile nella nostra lingua. Si calcola che tra il 60 e il 70% della popolazione locale campi più o meno clandestinamente sull’estrazione e il commercio delle pietre.

È là dove vengono lasciate tonnellate di terra scartata, e già setacciata, dalla produzione dell’azienda estrattifera, che parte la caccia di masse di uomini e donne, e spesso adolescenti. Una caccia che inizia con una vera corsa per accaparrarsi — stivali di gomma ai piedi e grandi sacchi di iuta in mano — i posti considerati migliori per lavorare. Il segnale convenzionale è quando le guardie si spostano, consentendo la partenza per la ricerca. Il tutto due volte al giorno, mattina e pomeriggio. E i “guaqueros” scavano, a mani nude o con l’ausilio di piccole ciotole di metallo, picconi e pale, carponi nel fango, schiacciati a decine in pochi metri quadrati, raccattando qua e là qualche piccola pietruzza, o qualche suo minuscolo frammento, da rivendere poi a chi voglia pagare in contanti, per una sorta di commercio al dettaglio. È il loro modo di sbarcare il lunario alla bell’e meglio, ritagliandosi uno scampolo di sopravvivenza. Per l’acquirente finale, invece, che aspetta nella piazza del villaggio per mercanteggiare la vendita, questo è il classico escamotage per ricavare il massimo con il minimo sforzo, pagando a prezzi possibilmente irrisori ciò che poi si proverà a piazzare sul mercato con un guadagno importante.

«La maggior parte dei “guaqueros” è fatta di persone che praticano questa attività perché così è stata tramandata da diverse generazioni», dice a «L’Osservatore Romano» Karoll Garcia, direttrice esecutiva del “Programma di sviluppo e pace Boyapaz”, della diocesi di Chiquinquirá, in cui rientra anche Muzo. Mentre «altri vengono da luoghi più o meno vicini» con la speranza di trovare quel piccolo pezzo di tesoro che possa cambiare loro la vita. «Nel codice minerario nazionale sono chiamati “barequeros”, cercano pietre preziose nei terreni messi a disposizione dai concessionari; ma questa attività si svolge anche in torrenti o ruscelli che attraversano i settori minerari», spiega ancora.

Certo, «lo sviluppo di attività come l’estrazione mineraria è sempre segnato da contesti economici, sociali e politici marginali», aggiunge. «Gli stessi giacimenti di smeraldo sono situati in aree lontane dai centri urbani, il che porta alla creazione di insediamenti di persone o famiglie senza accesso ai servizi pubblici o situati in aree ad alto rischio di disastri. E questo innesca spesso situazioni che incidono negativamente sulla realizzazione di attività che potrebbero contribuire allo sviluppo economico locale». Le aree brulicano di case in mattoni e capanne di legno con tetti in lamiera, arroccate sui fianchi delle montagne, tra il verde fitto della vegetazione.

Per molti “guaqueros” quei luoghi sono l’Eldorado, costituiscono un’attrattiva irrinunciabile, lasciando intravedere il sogno di un futuro migliore, brillante come le pietre che cercano. Ne escono stravolti, portando a spalla enormi e pesanti sacchi di terra da ripulire e setacciare — spesso inutilmente — con le dita: sulla pelle hanno appiccicato il nero della polvere mineraria che si alza nell’aria. E pensare che per fare questo lavoro, dice Garcia, «bisogna registrarsi presso il sindaco, o se si scava su terreni privati ottenere una speciale autorizzazione dal proprietario».

È qui che interviene anche la presenza della Chiesa, con il suo spirito missionario. «Cerchiamo di formare i giovani all’imprenditorialità, per aiutarli a pianificare la loro vita, e di trovare assieme alternative economiche che consentano di avere un reddito per sé e le proprie famiglie; proviamo ad accompagnarli nella costruzione di una visione condivisa dello sviluppo, che integri il piano economico, sociale e culturale», conclude. Perché sognare va bene, ma non è tutto oro quello che luccica. Ammesso che lo si trovi. 

di Roberto Paglialonga


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