Un vero protagonista
Ricordare l’opera e la figura del cardinale Achille Silvestrini a cento anni dalla nascita. Questo l’obiettivo dell’evento «Il cardinale Achille Silvestrini, uomo del dialogo» che si è tenuto oggi, venerdì 27 ottobre, presso la sala della Protomoteca in Campidoglio, alla presenza del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella. L’incontro, organizzato da Villa Nazareth e promosso dall’assessorato alle Politiche sociali e alla salute del comune di Roma, ha visto la partecipazione del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di sant’Egidio, e della professoressa Emma Fattorini. Nell’occasione è stato anche letto un ricordo personale del cardinale Silvestrini inviato dallo scrittore Claudio Magris.
Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, all’evento «Il cardinale Achille Silvestrini, uomo del dialogo».
Ringrazio vivamente della vostra presenza, anche a nome di quanti hanno permesso quest’incontro in Campidoglio sulla figura e l’opera del cardinale Achille Silvestrini, per ricordare i 100 anni dalla sua nascita. Consentitemi di sottolineare che non si tratta solo di un evento commemorativo, ma di un modo per scoprire come ancora oggi le sue doti di uomo e pastore, il suo senso ecclesiale, lo spirito che animava il suo servizio oltre ad essere un esempio, rimangono un percorso offerto a noi tutti, nelle diverse funzioni ed esperienze. Viene in mente il ricordo fattone da Papa Francesco il 29 agosto del 2019, al momento della morte: «Una vita spesa nell’adesione alla propria vocazione quale sacerdote attento alle necessità degli altri, diplomatico abile e duttile, pastore fedele al vangelo e alla Chiesa».
L’incontro odierno si prefigge di tracciarne il profilo di sacerdote, di uomo di cultura, di interlocutore delle istituzioni e di prezioso collaboratore nel governo centrale della Chiesa. Da parte mia cercherò di offrire alcuni spunti che permettono di leggerne l’opera di diplomatico a servizio della Sede apostolica.
Don Achille è stata una figura che ha svolto un ruolo di rilievo nella Chiesa e per la Chiesa, accanto a ben sette Pontefici, vivendo momenti particolarmente densi di significato per la vita ecclesiale e per le stagioni della storia, anche quelle che hanno coinvolto e visto protagonista la Santa Sede sulla scena internazionale. Il suo operare partiva dal riconoscere che l’attività diplomatica è per sua natura attenta ad ogni aspetto e pertanto richiede ai suoi protagonisti capacità di lettura dei fatti e non solo la conoscenza degli avvenimenti; domanda discrezione, ma anche decisioni chiare e abilità nel prevederne conseguenze ed effetti. Questo il terreno sul quale questa singolare personalità ecclesiastica ha potuto offrire il suo apporto, mostrare il suo intuito e agire per il bene, con ferma volontà, anche di fronte alle difficoltà e ai travagli sempre presenti quando nell’operare si è chiamati a decidere. E questo anche di fronte a quelle mete che apparivano irraggiungibili ai più o che non trovavano condivisione e apprezzamento.
L’approfondimento svolto sull’azione diplomatica della Santa Sede durante gli studi in utroque iure compiuti alla Pontificia università Lateranense, quale alunno dell’Apollinare, si concretizzò nella formazione ricevuta presso la Pontificia accademia ecclesiastica che lo portò poi a vivere la stagione del Concilio ecumenico Vaticano ii , sin dalla fase preparatoria. Egli è dunque testimone dell’impulso voluto da san Giovanni xxiii per aprire la Chiesa al rapporto con il mondo, concretizzatosi nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes che tanta importanza attribuisce anche all’azione diplomatica e al suo ruolo nella costruzione di una sana cooperazione della Chiesa con i singoli Stati, come pure con la comunità internazionale e le sue istituzioni. Un orientamento delicato da attuare, ma allo stesso tempo strutturale per contribuire ad una azione di pace, a quella tranquillitas ordinis agostiniana, vista come base per avviare un cammino in grado di evitare le contrapposizioni, le guerre e le loro vittime.
Silvestrini percepisce e vive l’immagine di una Chiesa libera da legami di ogni specie, capace di instaurare dialogo e di essere protagonista. Uno slancio che prosegue con il pontificato di san Paolo vi che nel dare attuazione ai disposti conciliari affida proprio all’attività diplomatica un ruolo importante, affiancando però alla diplomazia bilaterale e alle forme tradizionali del multilateralismo un’attenzione alle organizzazioni intergovernative che lo stesso monsignor Montini, come sostituto della segreteria di Stato, aveva seguito nel sorgere durante gli anni dell’immediato dopoguerra. In questo contesto quella di don Achille è la figura di diplomatico che affianca all’animo delicato un carattere determinato, che mostrava chiarezza senza cedimenti rispetto a quella «ragione di Chiesa» che del diplomatico pontificio è essenza, viatico e identità.
Sappiamo bene che verso il cardinale Silvestrini sono stati innumerevoli gli attestati di ammirazione per le riconosciute qualità politiche e diplomatiche che lo collegano alla più ampia azione della Santa Sede nei complessi momenti della guerra fredda, del sorgere di nuovi Stati, della sicurezza, delle istanze di rispetto dei diritti e delle libertà. Realtà che, ieri come oggi, richiedono doti di grande apertura e credibilità di mediazione, ma soprattutto un’intelligente e chiara distinzione tra il dialogo politico-diplomatico e altri percorsi di dialogo.
Ne diede prova il cardinale quando come prefetto della Congregazione per le Chiese orientali operava nel dialogo di comunione o anche in profili di dialogo ecumenico e interreligioso, testimoniando la necessaria distinzione tra l’azione diplomatica e ogni altro percorso volto ad avvicinare posizioni diverse. Infatti, a differenza di altre tipologie di dialogo, quello diplomatico, se autorevolmente condotto, è capace di costruire soluzioni in assenza di ogni elemento comune, come pure di distinguere i diversi ambiti del contendere e, ancora, di mostrare una perspicace lungimiranza, sapendo che talora è necessario accettare intralci e limiti di fronte ai quali è dato di reagire solo con diplomatica fermezza.
Che le sue doti fossero comprese e apprezzate lo dimostra non solo la fiducia su di lui riposta dai Papi e dai superiori della segreteria di Stato, ma anche la capacità di intravvedere e leggere i segni dei tempi. Come quando, quale responsabile dell’ufficio per le organizzazioni internazionali nell’allora Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, intuì che la diplomazia multilaterale era chiamata ad interpretare le esigenze di stabilità e di cooperazione in un mondo nel quale il desiderio di pace o la necessità di sicurezza erano ormai mutati rispetto alla visione e ai parametri tradizionali. Questo atteggiamento si manifestava ancora di più in un contesto che vide la Santa Sede alla ricerca di una strategia diplomatica per garantire la vita della Chiesa nei Paesi della persecuzione, dell’annientamento del senso religioso, della proibizione ai credenti di manifestare la loro fede e il loro sentimento. Una situazione che, ieri come oggi, richiede agli uomini di Chiesa di avere ferme radici in Dio, fiducia nelle proprie capacità di azione e speranza di poter ristabilire condizioni in grado di garantire la libertà di religione. Ambito fortemente dibattuto o piuttosto che si incrocia con la visione che dell’elemento religioso aveva l’ateismo di Stato o ha la secolarizzazione che configurano il diritto alla libertà di religione o di credo quale base di una contrapposizione tra il cittadino e il credente. Una posizione seguita da una strategia di esclusione, se non di annientamento, del cittadino che è allo stesso tempo un credente. […]
La complessità del lavoro che quotidianamente ho modo di svolgere mi fa pensare con ammirazione all’impegno, per molti versi più arduo, al quale dovette attendere don Achille in tempi che non mancavano di travagli e difficoltà. Tuttavia, a ben leggere le vicende di quel periodo, si vede con chiarezza, ancora una volta, come sia veramente Dio a condurre le persone perché facciano la storia.
L’orientamento che, a partire dal 1969, affida al multilateralismo le sorti della costruzione di una nuova Europa, vede pronto monsignor Silvestrini a prendere parte ad un processo epocale che pone la Santa Sede tra i protagonisti di un’azione diplomatica senza precedenti, capace di abbracciare tutto l’antico continente e il Nord America per porre definitivamente fine agli assetti successivi al secondo conflitto mondiale. Un processo culminato con la firma dell’atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa ( csce ) che non è stato un semplice avvenimento, ma un’accelerazione della storia in grado di modificare il corso delle relazioni internazionali, e che Silvestrini ha così sintetizzato: «Helsinki è stata un’intuizione di grande significato» (Libertà di coscienza: una vera bomba, in «L’Osservatore Romano», 24 luglio 2010). In effetti si è trattato di una pagina di storia diplomatica in cui si sono fusi speranza, cambiamenti e volontà che vivono ancora oggi nell’attività dell’Organizzazione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa ( osce ).
In quel contesto, fatto di persone in grado di confrontarsi e operare attraverso lo strumento diplomatico, anche la Santa Sede aveva sin dall’inizio sostenuto quel particolare sistema di contatti e di cooperazione tra i Paesi, con un atteggiamento dettato dalla piena coscienza di poter concorrere a rappacificare il continente e i suoi popoli. Un obiettivo che oggi si ripropone di fronte alle drammatiche e sanguinose sofferenze del conflitto in Ucraina che sembra aver allontanato le ragioni che hanno portato al «crollo dei muri» e ridisegnato non solo i confini, ma l’esprit dell’Europa.
Quell’esprit venne originariamente delineato il 19 marzo del 1969, quando al termine del vertice del patto di Varsavia tenutosi nella capitale ungherese, i Paesi dell’est europeo inviarono alle cancellerie degli Stati occidentali il cosiddetto «Appello di Budapest». Un documento dedicato ai problemi della pace e della stabilità in Europa, che altresì auspicava la convocazione di un negoziato a livello governativo, per trattare proprio i temi della pace, della sicurezza e della cooperazione tra gli Stati del continente. La volontà delle due superpotenze, il carattere fortemente politico delle aspettative e dei contenuti legati ad un tal genere di processo, fu subito evidente, anzitutto per il fatto che la proposta proveniva da un’alleanza militare.
Questo poteva escludere ogni interesse della Santa Sede che, conscia della sua natura, è solita restare lontana da ambizioni di ordine territoriale, consapevole della universalità della sua missione. Di contro, però, il profilarsi di un evento che assumeva in una forma originale un progetto di pace, non poteva restare fuori dalle considerazioni che sottintendono anche oggi all’azione internazionale della Sede Apostolica.
Silvestrini fu uno dei pochi a percepire che per la prima volta, dopo gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, i Paesi europei dell’est come dell’ovest avrebbero iniziato un dialogo e così strutturato un cammino comune che poteva positivamente ripercuotersi sulla presenza della Chiesa in tante regioni. A questo la Santa Sede era piuttosto sensibile, come ricordava Paolo vi per il quale la relazione e l’aspirazione a diritti e libertà restavano «uno dei punti fondamentali da cui può dipendere l’organizzazione definitiva della società europea», e per questo non mancava di annunciare: «La Santa Sede è con voi in questo lavoro di ricerca delle strade che potrebbero portare ad un leale e fruttuoso riavvicinamento» (San Paolo vi , «Udienza agli istituti di studi europei», 29 aprile 1967, in aas 59 (1971), pp. 201-202).
Per il Consiglio per gli affari pubblici, la decisione di partecipare o meno ad una conferenza paneuropea diventava concreto quando giunse ufficialmente il documento elaborato dal patto di Varsavia. Mancando relazioni diplomatiche attive con i Paesi dell’est europeo, l’«Appello di Budapest» arrivò in Vaticano attraverso l’ambasciata ungherese accreditata presso il governo italiano.
Un gesto interpretato in linea con l’atteggiamento del blocco sovietico di considerare la Santa Sede come «potenza occidentale», di cui riconoscevano una sovranità territoriale. E non era una novità. Infatti, già nel 1957 proprio da parte dell’ Urss si era lasciata intravedere la possibilità di instaurare relazioni diplomatiche con lo Stato della Città del Vaticano e nel gennaio 1958 l’allora ministro degli Affari esteri sovietico, Andrej Gromyko, manifestò la disponibilità di quel governo a un «accordo di collegamento sulla difesa della pace», su cui fondare relazioni diplomatiche fra Unione sovietica e Vaticano (Cf. G. Barberini, La Santa Sede e la Conferenza di Helsinki per la sicurezza e la cooperazione in Europa, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», 37 (2014), p. 6).
La sintesi della posizione della Santa Sede la espresse Agostino Casaroli, allora segretario del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, leggendo nell’aide memoire inviato dal governo della Finlandia nel maggio 1969 a tutti i Paesi destinatari dell’«Appello di Budapest», l’interesse dei promotori del negoziato ad una presenza della Santa Sede in ragione del suo «potere morale, in Europa come fuori d’Europa» (A. Casaroli, Nella Chiesa per il mondo. Omelie e discorsi, Rusconi, Milano 1987, p. 361).
Posizione ripresa nell’ottobre di quello stesso anno in due distinti memorandum inviati dalla Santa Sede al patto di Varsavia e alla Finlandia, ribadendo la dimensione universale della sua missione e la volontà di rimanere estranea a questioni di ordine politico particolare. Allo stesso tempo, però, essa si diceva «profondamente e direttamente interessata al problema della pace e della collaborazione tra i popoli: problema che non è esclusivamente politico, ma presenta aspetti di carattere essenzialmente morale e umano. Inoltre la pace e la buona armonia in Europa sono così importanti non soltanto per tale continente ma per il mondo intero, che la Santa Sede però non può non fare grande caso di ciò, che direttamente la riguarda», anche perché «la [sua] base territoriale per quanto sia minima e simbolica si trova in Europa, […] un altro titolo al particolare interesse che la Santa Sede è tenuta a portare ai problemi della pace in questo continente» (questa la parte comune ai due memoranda e riportata in A. Casaroli, La Santa Sede e i problemi dell’Europa contemporanea, in «L’Osservatore Romano», edizione settimanale (n. 1565), 23 febbraio 1978, p. 4). […]
Da quel momento la Santa Sede, decidendo di unirsi ai lavori della futura csce , non mancò di precisare di volta in volta le questioni legate al fondamento della sua sovranità. Fu un lavoro giuridico-diplomatico che Silvestrini portò avanti con sapienza e competenza, nel necessario linguaggio del diritto internazionale e diplomatico dal momento che i fatti e gli archivi ci dicono che la questione non divenne mai oggetto di prese di posizione degli Stati partecipanti, anzi poteva dirsi risolta dal fatto che la Santa Sede era destinataria della documentazione predisposta in vista del negoziato (cf. H. F. Koch, La Santa Sede e la promozione dei diritti umani, in G. Concetti (a cura di), I diritti umani. Dottrina e prassi, Ave, Roma 1982, pp. 437-438).
Per il Consiglio degli affari pubblici, la questione aveva una sua consolidata soluzione di natura giuridica che traeva spunto proprio da quel doppio titolo di sovranità che alla Santa Sede compete a partire dal 1929 e da allora distintamente adoperato nella sua attività internazionale. Infatti, tra gli Stati invitati ad Helsinki finì col prevalere l’opinione che l’esercizio della sovranità su un territorio europeo da parte della Santa Sede ne giustificava formalmente la presenza di fronte alla norma procedurale che restringeva ai soli Stati la partecipazione.
Però, l’esatto valore attribuito alla natura che della Santa Sede è proprio, avrebbe fatto assumere a quella presenza ben altro significato che la rappresentanza dello Stato della Città del Vaticano. Fu poi il formale invito indirizzatole per prendere parte alle consultazioni preliminari di Helsinki ad eliminare anche qualunque altro tipo di incertezza che poteva derivare dall’articolo 24 del Trattato Lateranense ove si proclama che «la Santa Sede vuole rimanere e rimarrà estranea alle competizioni temporali tra gli Stati ed ai congressi internazionali indetti per tale oggetto, almeno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace». È quanto anche oggi la Santa Sede fa, raccogliendo l’invito di parti implicate in conflitti, interni o internazionali, che le domandano di operare per mediazioni e proposte di conciliazione, agendo sempre con la necessaria discrezione e con una prospettiva di azione libera da ogni altro interesse che non sia la causa della pace e della riconciliazione.
In tale contesto, monsignor Silvestrini è protagonista delle consultazioni iniziate il 22 novembre 1972 e concluse soltanto 1’8 giugno 1973, durante le quali la Santa Sede auspicava la formulazione di alcuni principi fondamentali capaci di concorrere a stabilire un clima diverso nelle relazioni internazionali e nella vita interna di ciascuno Stato. Si puntava ad un esplicito inserimento di temi quali il rispetto dei diritti dell’uomo, la promozione e tutela delle libertà fondamentali nelle diverse articolazioni. Concretamente la delegazione pontificia il 6 marzo 1973 presentava la proposta di inserire tra i «dieci principi alla base delle relazioni tra gli Stati» — meglio noti come i «principi di Helsinki» — il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo tra cui quello alla libertà religiosa (cf. il documento di lavoro della riunione: cesc / hc /36, del 6 marzo 1977) ritenuto un’esigenza basilare della dignità della persona umana. Riguardo invece alla «cooperazione nell’ambito della cultura e dei contatti umani», una seconda proposta tendeva ad includervi gli scambi di informazioni religiose e i contatti tra le persone e le organizzazioni confessionali per motivi inerenti al positivo esercizio del diritto alla libertà religiosa (cf. «L’Osservatore Romano», 8 marzo 1973).
Nel cosiddetto Libro Azzurro (cf. Relazioni internazionali, 1973, n. 27, pp. 730 e ss) che raccoglieva i risultati delle negoziazioni, la prima delle due proposte fu inserita tra i «principi che reggono le relazioni tra gli Stati» dopo essere stata favorevolmente accolta da tutti i partecipanti — ad iniziare dall’Unione sovietica — che ne avevano riconosciuto la validità.
La seconda proposta invece, venne inclusa attraverso una dichiarazione interpretativa fatta dalla Santa Sede e appoggiata dalle delegazioni partecipanti (cf. il documento cesc / hc /46, dell’8 aprile 1973), nella parte relativa ai «contatti umani e informazioni» nei quali era quindi compresa anche lo scambio di informazioni religiose, i contatti tra i credenti e quelli tra le confessioni religiose.
Come ben descrive lo stesso cardinale Silvestrini, la diplomazia pontificia raggiungeva il suo obiettivo: quella che al momento della presentazione il delegato dei Paesi Bassi definì «una vera bomba», divenne il principio vii dell’atto finale di Helsinki, e cioè il modo per indicare che la libertà di religione si pone «come una delle libertà fondamentali di ogni persona e come valore di correlazione nei rapporti fra i popoli» (A. Silvestrini, Libertà di coscienza: una vera bomba, in «L’Osservatore Romano», 24 luglio 2010).
di Pietro Parolin
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