· Città del Vaticano ·

A 50 anni dalla morte di Tolkien

Quel tesoro che devi lasciare

 Quel tesoro che devi lasciare  QUO-197
29 agosto 2023

Il segreto della longevità di un capolavoro  del Novecento 


In un saggio sullo scrittore americano H.P. Lovecraft, il romanziere e saggista francese Michael Houellebecq, si lascia sfuggire questa “profezia”: «Probabilmente, una volta dissipate le nebbie morbose delle avanguardie molli, il ventesimo secolo rimarrà l’epoca d’oro della letteratura epica e fantastica».

Al di là del tono polemico e urticante c’è del vero nella sua previsione, il Novecento può essere considerato il secolo della rinascita e della rivalsa dell’epica.

Il 2 settembre del 1973 moriva in Inghilterra J.R.R.Tolkien, due giorni dopo la morte del regista americano John Ford (di cui abbiamo parlato ieri su questo giornale), due grandi autori, uno letterario uno cinematografico, che possono essere a buon titolo definiti “epici”.

Questo genere che è stato il primo genere della storia della letteratura, ritorna in auge dopo essere quasi scomparso dai radar a partire dalla fine del Cinquecento.

Dopo l'Ariosto e Tasso l’epica in qualche modo esce di scena e il grande romanzo di Cervantes, che dell’epica sembra fare la parodia ne è in qualche modo il segno evidente.

Come un fiume carsico l’epica tornerà a galla sotto altre forme, dalla musica (dall’opera al melodramma fino al rock) al cinema (appunto il western innanzitutto) alla letteratura di cui Tolkien è stato il campione.

È un’epica novecentesca quella de Il signore degli anelli un libro (che alcune statistiche indicano come il più letto al mondo dopo la Bibbia), apparso alla metà del Novecento e oggi definitivamente assurto alla condizione di “classico”, anche nel senso calviniano per cui un classico è quel testo che non ha finito di dire quello che ha da dire.

Già oggi possiamo usare l’aggettivo “tolkieniano” così come facciamo con “kafkiano” o “felliniano”.

Lo schivo professore di filologia a Oxford ha piantato le sue radici nel cuore del Novecento ed è destinato a restarci a lungo. Anche perché non è attuale, non lo è mai stato, ma è profetico. Se infatti il Novecento è il secolo della morte di Dio e dell’avvento del Super-Uomo di cui parlava Nietzsche, Tolkien con la sua più grande invenzione letteraria, gli Hobbit, ci dice che il super-uomo non ci salva perché chi ci salva può essere solo il mezzo-uomo (e la sua umiltà).

L’inventore degli Hobbit muore nel 1973, venti anni dopo l’uscita del suo capolavoro che già in quei due decenni aveva conosciuto, soprattutto nei Paesi anglofoni, uno straordinario successo al punto quasi da turbare il professore di Oxford che parlava, incredulo e infastidito, del “deplorevole culto” che circondava i suoi libri e la sua persona.

Oggi, a cinquant’ anni dalla sua morte, quel successo è cresciuto a dismisura, è diventato un fenomeno mondiale impressionante e tanto si è detto e scritto, anche a sproposito, su Tolkien.

Possiamo quindi facilmente immaginare il suo disagio di fronte alle tante letture ideologiche e strumentali che si sono accumulate in questi decenni nei diversi Paesi, dalla lettura “sinistra” avvenuta negli anni Sessanta negli Stati Uniti d’America a quella opposta scoppiata negli anni Settanta in Italia e che ogni tanto sembra stranamente rispuntare fuori.

Destini sorprendenti di opere e autori capaci di suscitare grandi passioni (dall’amore incondizionato all’odio feroce e tutto quello che c’è in mezzo) soprattutto se la lettura si ferma alla superficie e non prova ad andare in profondità.

E allora proviamoci e proviamo a dire qualcosa sulla “lezione” che il professore Tolkien continua a impartire ai suoi milioni di lettori ancora oggi.

Un primo aspetto è ovviamente quello dell’immaginazione e della letteratura fantastica, che a volte viene definita, negativamente, letteratura “d’evasione”.

Nei suoi brevi ma densi testi sulla letteratura (il Tolkien saggista è ancora poco noto in Italia) lo scrittore rivendica la dignità di una letteratura che permetta questa “evasione” se però riesce al contempo a dare ristoro e nuova visione al lettore.

Scrive nel suo saggio Sulle fiabe: «...abbiamo bisogno di ristoro. Dovremmo guardare ancora il verde, ed essere nuovamente stupiti (ma non accecati) dall’azzurro, dal giallo, dal rosso; dovremmo incontrare il centauro e il drago, e poi fors’anche all’improvviso scorgere, al pari degli antichi pastori, pecore, cani, cavalli — e beninteso lupi. Questo ristoro, le fiabe ci aiutano ad averlo. E in questo senso, soltanto il gusto per esse può renderci o mantenerci fanciulli. Il ristoro (che implica il ritorno alla salute e il suo rinnovamento) è un riguadagnare, un ritrovare una visione chiara. […] Dobbiamo, in ogni caso, pulire le nostre finestre, in modo che le cose viste con chiarezza possano essere liberate dalla tediosa opacità del banale o del familiare — dalla possessività. […] (le cose) Affermiamo di conoscerle. Sono diventate quali quelle che una volta ci hanno attratto con il loro luccichio, il loro colore o la loro forma, e abbiamo messo le mani su di loro e poi le abbiamo chiuse a chiave nel nostro forziere, le abbiamo acquisite e, acquisendole, abbiamo cessato di guardarle».

In Come un romanzo Daniel Pennac sottolinea la virtù paradossale della lettura: «Quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso», per cui entrare e avventurarsi nella Terra di Mezzo o in Narnia permette di discernere meglio il senso proprio del nostro mondo reale.

Nel testo raccolto in questo giornale (nella pagina precedente a questa), il narratore e saggista Alessandro Zaccuri lo spiega efficacemente: «La letteratura è uno strumento di educazione allo stupore non perché ci proietta con violenza in un mondo totalmente estraneo, ma perché illumina di luce inattesa le zone d’ombra della quotidianità.

Il gioco può essere molto complesso e non esclude la costruzione di universi immaginali, come quello magistralmente allestito da J.R.R. Tolkien nel Signore degli Anelli […] Per questo la letteratura è meravigliosa, per questo educa alla meraviglia, allo stupore».

I principali “conduttori” di questo stupore sono gli hobbit, la grande invenzione di Tolkien. Tutto il resto che troviamo nei suoi libri già lo conoscevamo, ma gli hobbit no (se è per questo nemmeno Tolkien li conosceva prima della sua “inventio” in senso latino).

Gli hobbit dicono non solo stupore ma anche umiltà (precondizione dello stupore) e umorismo.

Come nell’epica western di Ford, anche in Tolkien c’è molto umorismo e molto “senso della compagnia”; tutto questo grazie soprattutto agli Hobbit.

Qui di seguito riportiamo una scena del romanzo dove si sente questa dimensione della compagnia, forse la scena più struggente, quella che lo stesso Tolkien in ben cinque lettere definisce la più decisiva per la trama, la più tragica e commovente della saga:

 

«Sam sedeva appoggiato alla roccia, con la testa ciondolante e il respiro profondo. Sulle sue ginocchia la testa di Frodo, che dormiva un sonno calmo e tranquillo… Gollum li guardò a lungo. Una strana espressione passò sul suo scarno viso affamato.

Il bagliore nei suoi occhi sbiadì, rendendoli opachi e grigi, vecchi e stanchi. Come colto da uno spasimo di dolore si allontanò, scrutando le tenebre in direzione del valico, scuotendo il capo: pareva in preda a una lotta interiore.

Poi tornò indietro, e allungando lentamente una mano tremante sfiorò il ginocchio di Frodo; più che un tocco era una carezza.

Per un attimo fugace, se uno dei dormienti l’avesse potuto vedere, avrebbe avuto l’impressione di mirare un vecchio hobbit stanco, logorato dagli anni che lo avevano trascinato assai oltre il suo tempo, lungi dagli amici e dai parenti, dai campi e dai fiumi della giovinezza, ormai nient’altro che un vecchio e pietoso relitto.

Ma bastò quel tocco perché Frodo si muovesse e lanciasse nel sonno un piccolo grido; e Sam fu immediatamente sveglio. La prima cosa che vide fu Gollum …. Intento, gli sembrò, a “frugare il suo padrone”. “Ehi, tu!”, disse rudemente. “Che stai combinando?” . “Niente, niente”, disse Gollum sotto voce. “Caro Padrone!”. “Direi!”, esclamò Sam. “Ma dove sei stato …con questo tuo andare e tornare sgattaiolando, farabutto?”.

Gollum indietreggiò, e sotto le sue palpebre pesanti luccicò un bagliore verde. Pareva quasi un ragno, accovacciato in quel modo sulle gambette curve, coi suoi occhi protuberanti. L’attimo fugace era volato via per sempre».

 

Per un attimo Gollum, il “cattivo”, sta per redimersi ma è proprio il “buono” Sam a interrompere e far saltare questa possibile conversione e la storia prende una piega che conduce ormai verso il finale sorprendente e paradossale in cui Frodo, il protagonista, il “più buono” di tutti, crolla, cade, si corrompe e vanifica tutta l’opera da lui compiuta.

Per fortuna (per Provvidenza), lì a fianco c’è sempre Gollum, il reietto, il traditore, il “salvatore”.

Il Male in questo romanzo non sembra che si possa “risolvere” con un colpo di spada (anche la grande spada Anduril di Aragorn è di fatto insufficiente) ma bisogna abbracciarlo, farci i conti tutti i giorni accogliendo la sua inquietante “compagnia”: l’Anello non si può utilizzare né distruggere facilmente ma è necessario fare un viaggio fino alle sue radici (lontano, dentro se stessi) per compiere quel gesto di rinuncia che “libera dal male” e lo rende inefficace.

E con l’Anello anche Gollum bisogna portarselo appresso e ripetere il gesto antico e scandaloso di Bilbo: perdonarlo. L’unico che ha compreso bene il paradosso del Male è Gandalf che abbraccia il Balrog (anche “alle sue caviglie”) per un corpo a corpo mortale ma proprio per questo portatore di nuova vita.

Ed è solo Gandalf “rinato” che ha l’intuizione acuta della verità e può leggere la storia oltre l’apparenza fattuale e coglierne il senso profondo: «Disperato com’ero, il mio nemico era l’unica speranza che avessi».

Romanzo epico dal sapore antico, il capolavoro di Tolkien ha aperto tempi e prospettive nuove alla narrativa, rovesciando radicalmente la vecchia logica dell’epica: nessun tesoro da cercare o patria da difendere o riconquistare, ma un “tesoro” al quale si deve rinunciare, rinnegando se stessi e compiendo scelte apparentemente folli, che, come si dice ne Lo Hobbit, faranno perdere la rispettabilità. Un’epica dal sapore cattolico insomma, dove i piccoli e gli stolti intuiscono e “vincono” e i grandi e i sapienti e i benpensanti, sono “rovesciati dai loro troni”. Forse questo il segreto del suo successo?

di Andrea Monda


Leggi anche:

Un violinista mancato
di Silvia Guidi