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La morte di monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea

Un pastore radicato
nel Concilio

 La morte di monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea  QUO-163
17 luglio 2023

Monsignor Luigi Bettazzi ha attraversato una stagione ecclesiale in qualche modo unica, ha incontrato e si è confrontato con i principali protagonisti del Concilio e del post Concilio, scrivendo, intervenendo e non di rado provocando. Approfondimenti e valutazioni continueranno ancora a lungo, ma resta, per chi lo ha incontrato e conosciuto, la testimonianza di un pastore che ha speso la sua vita per far giungere a tutti la conoscenza dei testi conciliari. Uso appositamente la parola pastore, ben sapendo che non è rimasto certo estraneo al “conflitto delle interpretazioni”, ma, grazie all’esperienza vissuta come suo collaboratore per vari anni e come suo primo successore nella sede eporediese, devo sottolineare proprio il suo impegno pastorale, che ha cercato di tradurre in tutti i modi il magistero conciliare, a cominciare dalle costituzioni, quasi un ritornello in tutti i suoi interventi.

Incontrando una diocesi ricca di tradizione e di attività pastorali, non si stancò di riproporre con insistenza la Sacrosanctum concilium e la Lumen gentium; la Dei verbum fu al centro di uno dei due sinodi diocesani, il secondo, mentre il primo aveva come schema di fondo tutte e quattro le costituzioni. Il contesto sociale segnato dall’esperienza olivettiana e da altre realtà industriali, insieme alla responsabilità di Pax Cristi, provocava naturalmente una sua speciale attenzione alla Gaudium et spes, insieme alla Pacem in terris e al magistero sociale successivo. In questo particolare contesto sociale sono nate anche le varie “Lettere aperte” a diversi personaggio politici; la più conosciuta fu quella ad Enrico Berlinguer.

I diocesani hanno poi conosciuto una dimensione pastorale del vescovo Bettazzi che ad altri sfuggiva, ed è la dimensione locale, con una presenza puntuale e capillare in tutte le centoquaranta parrocchie della diocesi, nelle chiese e nei santuari della montagna, accanto in modo particolare alla vita di ogni sacerdote e dei suoi famigliari, nei momenti lieti e in quelli della sofferenza. Non si è trattato solo di una eccezionale capacità di movimento, visti i molti viaggi affrontati per i vari impegni (le ferie erano dedicate a visitare i preti Fidei donum della diocesi): il Canavese si è sentito non solo accettato ma scelto e via via sempre più amato, a cominciare dalle sue vallate ricche di sentieri e di mete in alta quota. Erano quelli anche i suoi giorni di silenzio, di deserto, fedele alla sua figura di riferimento, san Charles de Foucauld.

E c’è una terza dimensione pastorale che non va dimenticata: il riferimento a Pietro. San Giovanni XXIII era il Papa del Concilio e della Pacem in terris; con san Paolo VI c’era il comune legame con la Fuci; con san Giovanni Paolo II il rapporto divenne via via più intenso. Gli inizi non furono privi di qualche diffidenza, poi però il dialogo continuò con frequenza dalle due parti, fino alla visita pastorale di due giorni che Papa Wojtyła fece alla diocesi di Ivrea dal 18 al 19 marzo del 1990, preceduta, com’era abitudine del Pontefice, da una cena privata, svoltasi un mese prima, cui ebbi la grazia di partecipare: dire commovente è poco, ricordando le molte domande e la capacità di ascolto da parte del Papa e la confidenza fraterna e filiale con cui il vescovo rispondeva. Il rapporto di monsignor Bettazzi con il successore di Pietro ha visto infine in questi anni di Papa Francesco alcuni momenti culminanti. Penso anzitutto alla canonizzazione di monsignor Romero, che compensò una delle ubbidienze più difficili che gli era stata chiesta, quella di non partecipare ai funerali del vescovo ucciso. Un’altra fu quella di desistere, con altri due vescovi, dall’offrirsi in prigionia al posto di Aldo Moro. Grande gioia è stata la canonizzazione di Charles de Foucauld, alla quale prese parte lo scorso anno. E mi sia permesso concludere con un aneddoto. Parlando del magistero di Papa Francesco, spesso sottolineava che le tre visite compiute dal Papa alla tomba di don Mazzolari, di don Milani e di don Tonino Bello erano una vera enciclica per le nostre Chiese italiane, ed aveva riso di gusto quando un suo sacerdote gli disse un giorno che quell’enciclica non era stata scritta dal Papa con le mani «ma con…i piedi, sì, i piedi del pellegrino!».

di Arrigo Miglio


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