· Città del Vaticano ·

Martini e la speranza di un cambiamento

La Chiesa che verrà

Italian cardinal Carlo Maria Martini salutes one of his peer as he arrives for an ordination ...
31 agosto 2022

Non è possibile separare il ricordo della morte del cardinale Carlo Maria Martini dal ricordo di quelle parole che egli aveva consegnato al suo confratello padre Georg Sporschill e alla giornalista Federica Radice Fossati e che apparvero sul «Corriere della Sera» il 1° settembre 2012, all’indomani della sua scomparsa. Quella breve e intensissima intervista si impose subito come una sorta di testamento pastorale e spirituale dell’antico arcivescovo di Milano; in particolare ebbe, e ha ancora, forte eco per la denuncia del ritardo che la Chiesa aveva accumulato rispetto alla sua missione di intercettare sempre il cuore degli uomini e delle donne di volta in volta presenti nella storia.

Vale così la pena di riascoltare, proprio nel decennale della morte del cardinale, l’affermazione con la quale si concludeva quel dialogo che non smette di darci ancora da pensare: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?». Queste parole si pongono a conclusione dell’intero ragionamento che Martini mette all’opera in quell’intervista e il cui punto di partenza offre le giuste coordinate per collocare la posizione dei credenti in quest’ora della storia. Egli parte mettendo in correlazione due elementi: da una parte la radicale trasformazione delle terre dell’Occidente in terre del benessere, dall’altra ciò che evoca come la stanchezza della comunità credente. Riascoltiamo le sue parole: «La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità».

E qui il punto è proprio il fatto che la comunità dei credenti fatica a prendere coscienza di quel «cambiamento d’epoca» (Francesco docet) che proprio l’avvento del benessere — in tutte le sfumature che un tale termine richiama — ha provocato nella vita concreta di noi occidentali. Abbiamo vite più lunghe, più comode, con tanta salute e tante opportunità; godiamo di una libertà senza precedenti e di possibilità di viaggio e di comunicazioni che già solo i nostri genitori avrebbero faticato a pensare come realmente possibili. Certamente non manca in un tale inedito scenario antropologico del benessere anche una quota abbondante di ambivalenza e di ambiguità e anzi, proprio per questo, sarebbe tanto utile una religione come quella cristiana che sempre ricorda quel nucleo di verità che permette a ogni essere umano di salvaguardare la propria umanità. Il punto è, però, che questo sempre efficacissimo ricordo del Vangelo ha bisogno di rinnovarsi nel corso della storia e lì dove questo non accade, da parte dei credenti, e si insiste invece nell’utilizzare modalità di annuncio del Vangelo proprie di altri contesti antropologici, si precipita immediatamente in quella situazione di stanchezza e di sfiducia di cui diceva sopra Martini. È la stanchezza e la sfiducia di chi insiste oltre misura su ciò che è ormai obsoleto, con la convinzione folle di ottenere risultati validi per l’oggi.

Il porporato, pertanto, ricordava ai credenti che il loro tesoro — il tesoro legato alla propria volontà di conversione e dunque di riconoscimento che Dio è sempre all’opera, pur in mezzo ai loro peccati, il tesoro della Parola, il tesoro dei sacramenti — è a loro disposizione anche in quest’oggi della storia. Serve, tuttavia, una nuova disposizione spirituale e pastorale per comunicarlo agli uomini e alle donne del benessere. È tempo di ritornare al centro della missione ecclesiale: portare tutti all’amore di Dio, portare l’amore di Dio a tutti.

Non possiamo permetterci di lasciare, sotto le ceneri del nostro ripetere inutilmente le cose della mentalità spirituale e pastorale del passato, le braci viventi e accese del Vangelo. È tempo di portare alla luce quel fuoco e metterlo a disposizione di tutti. Ecco la questione vera, secondo Martini: «Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore?». Siamo davvero fortunati ad aver ricevuto, in questi anni recenti, da parte di Papa Francesco, milioni di istruzioni feconde e precise per gettare via le ceneri delle nostre paure, delle nostre resistenze, delle nostre “follie pastorali” e alimentare con vigore il fuoco del Vangelo per il “benessere” pieno di chiunque.

Il punto forse non è la Chiesa di oggi né la Chiesa del passato. Il punto è la Chiesa che verrà: la Chiesa cioè che vogliamo lasciare in eredità alle generazioni che ora vengono al mondo. Una tale Chiesa dipende ora dalla messa in opera di quel «cambiamento della mentalità pastorale» di cui parla Francesco a ogni piè sospinto: è il cambiamento che mira a trasformare la presenza dei credenti in questo tempo e in queste terre del benessere, affinché ogni loro gesto possa essere occasione per portare tutti a Gesù e Gesù a tutti. Se questo fine ci è finalmente chiaro, la strada da fare insieme con gli uomini e le donne di oggi si aprirà davanti a noi senza problemi. E senza ritardi. 

di Armando Matteo


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