Da quando la Russia ha invaso proditoriamente l’Ucraina, due mesi fa, di parole su questa guerra — se possibile più inspiegabile e assurda di altre, ma non meno orribile e brutale — ne sono state dette tante. Parole per giustificarla, parole per raccontarla, parole per condannarla. Ma sono state perlopiù parole di guerra.
Le parole della diplomazia e della politica non sono finora riuscite a farsi udire nel fragore incessante delle armi. Forse la parola pace non è stata proposta con la necessaria determinazione. Tanto che nella preoccupante escalation militare e verbale di queste ultime ore — con il rischio di un allargamento a ovest del conflitto e con l’agitato spettro di una guerra mondiale — viene da pensare che in questo momento la pace non sia un’opzione realmente contemplata dalle parti in conflitto, e non solo quelle che si fronteggiano sul campo. Un campo sempre più intriso di sangue, sempre più disseminato di macerie.
A pronunciare parole di pace, a implorare la pace è rimasto solo il Papa. Quella pace urgente, gridata e attesa da quanti sono sotto le bombe, costretti nei rifugi; da quanti sono fuggiti dalle proprie case e sperano di potervi tornare presto. Quella pace che andrebbe cercata con ogni mezzo, adesso, prima che sia troppo tardi.
Anche se per la pace non è mai troppo tardi. Perché ogni giorno di guerra in più è un giorno di troppo.
di Gaetano Vallini