L'OSSERVATORE ROMANO
160 anni di storia guardando il futuro

Oltre la pandemia
cosa abbiamo compreso?

A resident (L) of the Domenico Sartor nursing home in Castelfranco Veneto, near Venice, hugs her ...
05 luglio 2021

In questi giorni stiamo tirando un sospiro di sollievo, ci stiamo convincendo che c’è un ultimo miglio da percorrere e che l’emergenza forse è passata. È un sentimento comune nei Paesi <ricchi> del mondo: quelli che hanno accesso ai vaccini e li producono, che sperano al più presto di tornare alla vita di un tempo. Spesso con l’idea che tutto quello che ci è accaduto (la nostra salute a rischio, i milioni di morti, le economie bloccate, il senso opprimente della libertà e della vita sociale perdute) sia stata solo una parentesi dopo la quale tutto tornerà come prima. Non è così e non deve essere così. Ci sono tanti dati di fatto e tante riflessioni che stanno lì a dimostrarci i pericoli di questa visione.

Abbiamo scoperto, prima di tutto, di essere fragili. Le nostre vite e le nostre attività economiche sono state seriamente colpite in un modo inaspettato. Le certezze di un progresso costante, di una crescita inarrestabile sono state messe in crisi da un virus sconosciuto, nato ancora non sappiamo bene come, in un Paese lontano. Le nostre misure di difesa non hanno funzionato o hanno funzionato poco. I timori per la nostra salute, per quella dei nostri cari ci ha fatto capire quanto la disattenzione e  il disinvestimento nella protezione universale fossero imperdonabili. Quanto un sistema sanitario efficiente e vicino ai cittadini fosse essenziale. Aver sottovalutato cosa poteva accaderci è stato un errore grave, come non aver investito massicciamente nella ricerca, nella formazione e nelle competenze.

Abbiamo imparato poi che quel numeretto, diventato un totem, il “Pil” ci diceva ormai poco del benessere di una nazione. L’ossessione per la crescita perenne ci faceva perdere di vista la qualità della crescita, le sue componenti, gli effetti sulla natura, le enormi disuguaglianze che generava. Eppure Papa Francesco lo aveva ricordato bene a tutti nella sua enciclica con parole forti e nette: «La semplice promozione della libertà economica, quando le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi, diventa un discorso contraddittorio. Finché il sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata non ci potrà essere la festa della fraternità universale». Purtroppo di persone scartate ce ne sono ancora milioni, se non addirittura miliardi. E sicuramente scartato, colpito, depredato è l’ambiente naturale in cui le nostre attività si realizzano.

Sconfiggere la pandemia è, in questo momento, la nostra priorità. Ma già dal modo in cui combattiamo questa battaglia si capirà se abbiamo compreso qualcosa della lezione che il coronavirus ci ha dato. Se, ad esempio, affronteremo la questione della vaccinazione dei Paesi poveri davvero con uno sguardo globale e attento  a preservare la salute di tutti. Un dovere morale oltre che una scelta economica giusta.

Ma quando tutto questo finirà, e sono sicuro che accadrà in tempi ragionevoli, resteranno intatte le due grandi questioni legate al modello di sviluppo: sul fronte della sostenibilità ambientale e su quello delle disuguaglianze globali. Sappiamo in maniera inequivocabile (le voci dei negazionisti sono finalmente quasi scomparse) che il tema delle risorse naturali, della scarsità dell’acqua, della riduzione delle emissioni, dello sfruttamento delle terre, dello scioglimento dei ghiacciai  va affrontato con una consapevolezza e un’incisività diversa dal passato. L’Organizzazione mondiale della sanità — lo ha ricordato nei giorni scorsi il presidente Mario Draghi — ha stimato che il cambiamento climatico causerà 250.000 morti all’anno tra il 2030 e il 2050. La transizione ecologica e l’economia circolare non sono solo argomenti di cui discutere nei convegni. Se ne sente tanto parlare nei piani aziendali e nei programmi di governo: e  questo è forse un frutto positivo che sta nascendo in un periodo molto doloroso.

Oggi, poi, stiamo ragionando di ripartenza,  non vediamo l’ora di riprendere tutte le attività economiche. Un bilancio vero ancora non è stato fatto ma sono certo che quest’anno e mezzo ha aggravato le disuguaglianze, ha spinto ai margini un numero sempre più alto di persone. I primi dati parlano di 88 milioni di persone finite in povertà estrema nel 2020. Secondo la Banca Mondiale, altri 132 milioni potrebbero finirci nei prossimi 10 anni. E a pagare sarebbero soprattutto lavoratori giovani e donne.

Proprio nel momento in cui ci siamo sentiti più fragili ed esposti, in cui abbiamo temuto più per le nostre vite abbiamo riscoperto l’intensità (e quanto ci pesava l’assenza) del rapporto con gli altri. Agli altri, tutti,  dobbiamo però garantire un futuro che non può essere basato su un modello che premia pochi e mette nell’angolo molti. Ci sono produzioni da reinventare, nuovi lavori da far emergere da una situazione di precarietà, cicli industriali da rendere compatibili con la difesa dell’ambiente, stili di vita da adeguare alla solidarietà e al senso civico. Il libero mercato ha creato ricchezza, ha aiutato tantissimi a uscire dalla miseria. Ma non ha risolto le disparità e la situazione di marginalità di parti intere del nostro mondo. Uno sviluppo equo, sostenibile e solidale è non solo un dovere ma anche un elemento del tutto compatibile con i principi della libertà d’impresa. Abbiamo un compito da assolvere, può essere svolto con capacità d’innovazione e attenzione al futuro.

di Luciano Fontana,
direttore del «Corriere della Sera»


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