· Città del Vaticano ·

Simul currebant - Nel mondo dello sport
A tu per tu con Emanuele Blandamura

Volevo essere Rocky Balboa

 Volevo essere  QUO-200
01 settembre 2025

di Giampaolo Mattei

«Volevo essere il Rocky Balboa italiano: ero talmente nella parte da essere convinto che non fosse solo un film ma che quel pugile così straordinario fosse reale». A parlare è Emanuele Blandamura, 45 anni, già campione europeo dei pesi medi tra il 2016 e il 2018, l’anno della sfida al titolo mondiale. Sul ring vanta “cinture” internazionali e record importanti. Tante vittorie (29) e poche sconfitte (4): «Non conto le mie vittorie, sarebbe troppo facile, ma le sconfitte che ho vinto».

Con Rocky condivide l’essere periferico, l’esperienza violenta della strada districandosi tra espedienti e giri pericolosi, l’atteggiamento del bullo che nasconde fragilità, frustrazioni. Alla ricerca scomposta di riscatto per mettere ko precarietà di speranze e di sentimenti. Per Emanuele non è un film. È vita. E sì, perché la storia di Emanuele detto Sioux ha come sfondo la Roma spietata di periferia (ma potrebbe essere anche la Filadelfia di Rocky e qualsiasi altra città), tra palestre e vicende da “Suburra”. L’ha raccontata, di recente, anche nel programma “Storie di sport. Athletica Vaticana racconta” su Radio Vaticana-Vatican News.

La vita di Emanuele è una vera e propria sceneggiatura. Nasce a Udine il 19 dicembre 1979. Aveva appena otto mesi quando i genitori si separano e lo abbandonano: per conoscere la mamma passeranno 27 anni (alla stazione della città friulana con un freddo abbraccio divenuto, piano piano, relazione). Il padre, racconta Emanuele, non aveva la maturità per esserlo. Ad accoglierlo a Roma zia Teresa e gli straordinari nonni Isabella e Felice, maresciallo dei carabinieri in pensione, che hanno letteralmente salvato il nipote, con amorevole fermezza, per non farlo scivolare nella disperazione di una vita sbandata.

«Da bambino mi è mancata la normalità di una famiglia: l’abbandono, la solitudine, la rabbia sono state le mie prime sconfitte sul ring della vita» confida. «Sono sconfitte più pesanti e dolorose di un ko: ho imparato che proprio dal sapere accogliere le sconfitte si deve ripartire per le vittorie, così ho fatto sia sul ring sia nella vita».

Asilo dalle suore e via via il sentirsi diverso e solo: l’unico bambino a essere stato abbandonato dai genitori. La sua esperienza scolastica va a ingrossare le statistiche che denunciano “l’abbandono”. Tra sfide anzitutto con se stesso e poca voglia di rispettare le regole. E non è una vittoria straordinaria vedere oggi Emanuele confrontarsi con gli studenti — nel ruolo di educatore, tra volontariato e progetti sociali, in particolare con Opes — con l’appassionato suggerimento di vivere il percorso scolastico con uno stile opposto al suo?

Sulla strada si fanno anche incontri brutti. Veramente brutti. Tra violenze, droghe, giri ai margini (e oltre) la legalità. Impossibili da gestire soprattutto per un ragazzino che sente il dolore di non avere radici e si sfoga con i modi di fare del bullo, cercando attenzioni per essere accettato. Persino con un tentativo di suicidio. «Volevo essere un duro» per dirla con Lucio Corsi.

Ecco il pugilato a dare una svolta, non netta come se fosse un film ma lenta e con brusche frenate. Violenza che si aggiunge a violenza, si potrebbe argomentare. Invece no. Il pugilato — non a caso chiamato “la nobile arte” — stravolge (in meglio) Emanuele. Sostenuto dai nonni, dalla zia e da alcuni maestri di boxe anzitutto maestri di vita.

A questo punto della trama torniamo a Rocky. È guardando in tv il film di Sylvester Stallone, nel 1998 sul divano dei nonni, che Emanuele decide di voler diventare “il Rocky Balboa italiano”. A colpirlo (è proprio il caso di scriverlo...) è il rapporto del pugile con il suo maestro Mickey Goldmill (interpretato dall’attore Burgess Meredith), anziano e burbero coach che ne ha viste di tutti i colori e tratta Rocky come un figlio. Ecco la questione per Emanuele: riconoscersi figlio, riconoscere chi lo considera — per davvero — figlio.

«Il film mi ha inviato un messaggio: avrei potuto farcela, avrei dovuto combattere per raggiungere i miei sogni da ragazzo di strada». Nelle parole struggenti di Emanuele c’è anche la bellezza dell’arte del cinema: «Mi serviva un’illuminazione inaspettata, diciamo così! La storia di Rocky mi ha dato un coraggio e un’energia che non sapevo di avere. Mi ha dato uno scopo nella vita: ho iniziato a praticare con passione la boxe che da quel momento è diventata per me un modo di vivere».

Ma il lieto fine, il “vissero tutti felici e contenti” ancora non c’è. Le buone intenzioni fanno a pugni con la crudezza della vita. Tanto che la boxe respinge Emanuele. Si presenta in una palestra popolare — uno scantinato a Villa Ada — nell’aprile 1998 con aria strafottente e trasandata. Sigaretta in bocca con l’arroganza di chi pensa che il pugilato sia una dimostrazione di forza. Ma il maestro Guido Fieramonte, 83 anni, con lo stile del Mickey di Rocky, non vuole in palestra un tipo così. «È stata la prima lezione di pugilato» ricorda.

Con queste esperienze, la carriera di Emanuele non è stata “solo” un fatto sportivo. C’è sempre stato — come c’è adesso che, dal 2019, ha messo i guantoni da parte — molto ma molto “di più”: «Ho fatto i miei sbagli e sono ripartito da lì, costruendo così il mio personalissimo capolavoro perché la vita è un dono straordinario. Il campione è quello che perde e si rialza, sicuro che le sconfitte sono le vittorie più grandi».

Emanuele ha raccontato la sua storia in 2 libri. Nel 2018 è uscito “Che lotta è la vita — Prima bullo, poi campione. Salvato da un nonno eroe” scritto da Dario Torromeo (Absolutely Freee editore, pagine 160, euro 18,00). Nel 2024 ha pubblicato “Dentro e fuori dal ring — Non conto le vittorie, ma le sconfitte che ho vinto”, scritto con Antonino Mancuso, professore di alto profilo capace di rendere le vicende di Emanuele un “manuale di vita” buono per tutti (Lab Dfg, pagine 160, euro 18,00). Particolarmente coinvolgenti per conoscere Emanuele il docufilm “Sioux” di Riccardo Rabacchi e il cortometraggio “Bob and Weave” — sullo sport come antidoto al bullismo — diretto da Adelmo Togliani.

In un “a tu per tu” con un forte pugile non può mancare una domanda tecnica. Da peso medio — la categoria più seguita insieme ai “massimi” — qual è l’avversario da incontrare? «Ray Sugar Leonard! Nino Benvenuti è stato la mia icona! Sicuramente avrei perso con tutti o, chissà, forse no: ma che meraviglia sarebbe stato poter incrociare i guantoni con loro». E un match con Rocky?