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Zona Franca
Sulla teologia rapida

Un pensiero per i naufraghi
del nostro tempo

 Un pensiero per i naufraghi  del nostro tempo  QUO-199
30 agosto 2025

di Alessandro Pertosa

Viviamo in un tempo attraversato da accelerazioni improvvise, da cambiamenti che non concedono tregua e da domande che sorgono più in fretta delle risposte. In questo scenario, la teologia rischia di apparire come un sapere lento, chiuso nei suoi polverosi trattati e distante dalle urgenze della vita quotidiana.

Proprio nel tentativo di evitare l’ampliamento di questo divario, mi sembra si inserisca la proposta di Antonio Spadaro di una teologia rapida: un pensiero che non rincorre le mode, ma si lascia ferire dall’immediatezza del presente. Un pensiero quindi capace di cogliere le domande nell’attimo in cui esplodono e di offrire risposte senza la pretesa di esaustività. Non è una scorciatoia intellettuale, né un pensiero superficiale, ma la capacità di rispondere in maniera elastica, quasi intuitiva, a domande che la vita pone in contesti inediti, instabili, attraversati da sempre maggiori velocità e precarietà. È una teologia che non attende di sedimentarsi in manuali o trattati sistematici: si lascia piuttosto provocare dal presente come un rabdomante che cerca le sorgenti nascoste sotto un terreno arido.

Questa modalità di pensiero, rapida e non frettolosa, immediata ma non sbrigativa, fulminea ma non veloce, non parla soltanto ai fedeli che già vivono un’appartenenza ecclesiale strutturata. Anzi, forse trova un interlocutore privilegiato proprio in quanti non si riconoscono in un orizzonte religioso definito, ma che ciononostante non smettono di cercare le ragioni profonde del senso; persone che hanno ancora il coraggio di gettarsi nel mare aperto della vita, di affrontare le rapide e i fortunali dei propri giorni, lasciando che l’ignoto diventi occasione di scoperta.

Dinanzi a questa proposta, emergono due risposte diverse incarnate da due modelli antropologici opposti, o potremmo forse meglio dire due modalità distinte di abitare il mondo: quello tellurico, di chi cerca appigli garantiti e sedimentati sulla terra ferma, e quello talassico, di chi – con timore e tremore – si getta controvento tra le onde di un mare in tempesta.

I tellurici vivono ancorati a una terra che credono solida e definitiva. Si muovono su un terreno che percepiscono stabile, fatto di certezze, dogmi ideologici, risposte sempre pronte all’occasione. Hanno i piedi ben piantati sulla roccia – o almeno così credono – e da lì traggono sicurezza per la vita. La loro forza, tuttavia, si rivela spesso un limite: perché la terra che abitano rischia di trasformarsi in un recinto. La loro fede — o quella che credono tale — può diventare ideologia stagnante, sistema chiuso e incapace di ascoltare le domande nuove che emergono con forza dalla vita concreta.

L’uomo talassico, al contrario, non teme di tuffarsi in mare aperto, di sfidare l’incertezza delle onde e dei venti. Sa che ogni stabilità è provvisoria, che la vita stessa è un viaggio esposto ai flutti più burrascosi, e che nessuna carta nautica potrà mai prevenire l’ennesimo imprevisto. Non si spaventa di fronte ai fortunali dell’esistenza, perché ha compreso che la condizione del naufrago è in realtà un dono. Il naufrago è colui che ha perso ogni certezza di controllo e proprio per questo è costretto ad abbracciare il legno della croce — per dirla con Agostino — e a guardare in alto, a puntare lo sguardo oltre l’ultimo orizzonte. Perché se guarda in basso, beve acqua e affoga; se alza lo sguardo, invece, respira e intravede Dio, il cielo, la stella polare, un orizzonte che lo guida. La sua fragilità diventa, così, apertura al vasto e sterminato universo.

Ecco, la teologia rapida si rivolge soprattutto a questi naufraghi esistenziali. Non offre loro un terreno solido su cui rifugiarsi, ma li accompagna a scoprire che il mare della vita non è solo minaccia, bensì possibilità. È un pensiero che non teme la complessità perché sa che proprio lì, nella confusione delle onde fra spuma e flutti, si nasconde la possibilità di un incontro con il divino.

La proposta di Antonio Spadaro è quindi un invito a un esercizio di prontezza, quasi di intuizione spirituale capace di intercettare le domande brucianti di oggi: la solitudine urbana, la crisi ecologica, le migrazioni, la fragilità dei legami affettivi, l’insicurezza esistenziale. Tutto questo non chiede solo trattati, ma parole che sappiano illuminare subito il cuore di ognuno, come lampi nel buio.

In questa proposta di lettura che ho suggerito, qualcuno potrebbe trovarci un paradosso: il naufragio, che di solito viene percepito come catastrofe, si rivela qui invece un dono quasi necessario, perché spezza le false sicurezze telluriche, costringe a spogliarsi di ogni ideologia, obbliga l’uomo a guardare verso l’alto. Nel naufragio si scopre che la vita non si possiede, ma si riceve. Non si controlla ma si attraversa.

Ebbene sì, credo di poter dire che la teologia rapida parli proprio a chi non teme di riconoscersi fragile, a chi accetta di non avere tutte le risposte, a chi comprende che solo nel mare aperto dell’esistenza si incontra davvero il mistero. È un invito a non rinchiudersi in sicurezze sterili, ma ad abitare l’instabilità come occasione di fede.

Il nostro tempo ha bisogno di pensieri rapidi non appesantiti da strutture rigide. Pensieri che sappiano indicare il divino senza presunzione di fornire risposte definitive, ma siano invece disponibili a condividere il viaggio, a remare insieme, a cadere e a rialzarsi, a naufragare per poi ricominciare. Perché nel mare talassico della vita, l’unico modo per non affondare è alzare lo sguardo e scoprire che in alto — da sempre — c’è una stella pronta a illuminare ogni nostro passo.