
di Andrea Monda
La notizia desta preoccupazione: a Gaza finalmente sono entrati, oltre ai soldati, ai carri armati, alle bombe e ai droni, anche delle altre persone per osservare da vicino, dall’interno, il campo di battaglia. Ma non si tratta di giornalisti, nonostante la richiesta che da mesi quest’ultimi hanno avanzato invano, non sono dei cronisti quelli entrati ma influencer. In particolare alcuni influencer israeliani e americani. Con dolente amarezza si può dire che a Gaza i giornalisti non possono fare altro che morire: sono oltre 200 ad aver perso la vita dal 7 ottobre 2023.
La preoccupazione quindi sorge spontanea insieme a qualche interrogativo. Perché si tratta di due categorie ben distinte, pur convergenti entrambi nel campo della comunicazione: mentre i giornalisti dovrebbero esercitare il loro lavoro all’insegna della ricerca oggettiva e della terzietà, questa condizione non è richiesta agli influencer che sono sempre “ingaggiati”, in qualche modo “arruolati” ad una causa, anche nobile, anche quando si tratta dell’autopromozione. Gli influencer sono di parte, sono dei propagandisti.
Quindi questa decisione cosa vuol dire? Che oggi gli influencer sono considerati più importanti, potenti e appunto “influenti” dei giornalisti? E quindi, ulteriore domanda anch’essa legittima: chi influenza gli influencer? Cioè, chi li arruola? E infine: che il divieto, l’off limits è imposto alla libera stampa ma non alla propaganda?
La propaganda si sa, è la protagonista, negativa, della guerra. Ne è, anzi, in qualche modo, la causa, il fattore scatenante al punto che si può dire che la guerra è il prolungamento della propaganda con altri mezzi. Perché la propaganda ha già in sé il virus della guerra, della violenza. Proprio per la sua granitica chiarezza. Non ama il chiaroscuro la propaganda, ma il bianco o il nero, nel suo rispondere alla logica binaria la propaganda aggira la complessità offrendo a piene mani la semplificazione.
Oggi risulta ancora più evidente ed inquietante questa antica verità che non c’è solo la guerra delle armi e degli eserciti ma prim’ancora la guerra della e nella comunicazione. Se nel mondo fisico infuria la violenza tra gli uomini, diffusa con maggiore o minore intensità, non solo a Gaza ma in tutti i continenti, nel mondo della comunicazione, anch’esso “fisico”, si agita un’altra violenza, fatta di parole usate come armi dall’una contro l’altra parte, per meglio dire “fazione”.
Perché, lo si può osservare quotidianamente, il mondo, reale e virtuale, è diventato un unico grande stadio, dove le tribune centrali non ci sono più ma sono state sostituite dalle due curve enormi, invadenti, pervasive, soffocanti.
L’illogica logica della tifoseria, con la sua anima sanguigna, ha infine prevalso su tutto ciò che è mediazione, moderazione, senso della complessità e del limite. È il tempo della polarizzazione e della semplificazione che è sempre, rozza, brutale, selvaggia. Eppure solo dalle tribune centrali si vede bene la partita, la si può cercare di comprendere in tutte le sue sfumature. Ma proprio queste tribune oggi sono interdette e rese inaccessibili, restano solo le curve, curve molto pericolose. Pericolose soprattutto per la realtà più preziosa e più fragile che è in gioco nella vita degli uomini: la verità.