A Cabo Delgado si continua a morire nell’indifferenza del mondo.
Non chiudere gli occhi

di Federico Piana e Bernardo Suate
Quell’appello per la pace a Cabo Delgado, in Mozambico, pronunciato da Leone XIV nel dopo Angelus di ieri è stato come un balsamo rinfrescante cosparso sulle ferite ancora aperte di un popolo che, da quasi dieci anni, si trova a dover fare i conti con episodi di violenza ormai sempre più spietati e frequenti. «Vi invito — ha detto il Pontefice rivolgendosi al mondo intero — a pregare per loro ed esprimo la speranza che gli sforzi dei responsabili del Paese riescano a ristabilire la sicurezza e la pace in quel territorio».
«Le parole del Papa ci hanno fatto sentire amati da tutta la Chiesa universale. Sapere che nel suo cuore c’è la nostra, drammatica, situazione ha riempito di gioia tutta la nazione». Quando monsignor Osório Citora Afonso, vescovo eletto di Quelimane e segretario generale della Conferenza episcopale mozambicana, risponde telefonicamente alle domande de «L’Osservatore Romano» è in procinto di partire per la sua nuova diocesi della quale prenderà possesso il prossimo 31 agosto.
Dalla voce del nuovo pastore della seconda provincia più popolosa della nazione dell’Africa orientale si percepisce tutta la tensione, il timore e lo sconforto per i recenti attacchi delle bande armate che hanno devastato non solo Cabo Delgado ma anche altri, numerosi, distretti: «Ad esempio, sono stati colpiti quelli di Macomia, di Chiúre, di Muidumbe. I risultati sono sempre gli stessi: morti e feriti. Ma anche tanti sfollati: dopo gli ultimi episodi di violenza si conta che si siano spostate almeno 8.000 persone».
Numeri che vanno ad aggiungersi alle cifre, già mastodontiche, rese note pochi giorni fa da Medici senza frontiere: solo dal 20 luglio al 3 agosto, nella regione di Cabo Delgado, gli sfollati sono stati 57.000. E il flusso sembra aumentare ogni giorno sempre di più.
Monsignor Citora rivela che questo fiume immane di gente che cerca di mettersi in salvo da sparatorie, attentati, rapimenti si sta lentamente spostando verso alcune aree più tranquille del nord e del sud. «Questa gente — aggiunge —ha bisogno davvero di tutto. Dopo aver abbandonato le proprie case e le proprie terre, non possiede più nulla. Ha camminato a piedi per giorni e giorni ed ora è sfinita».
Gli sforzi da parte del governo per aiutarli non mancano. Anche la Chiesa locale è in prima linea: proprio a Cabo Delgado, per esempio, i gesuiti hanno fatto una scelta radicale inviando un team di missionari con il compito di sostenerli sia materialmente che psicologicamente. Un’azione di vicinanza che, spiega il vescovo eletto di Quelimane, si «è concretizzata anche con una missione tra gli sfollati che la nostra Conferenza episcopale ha svolto poco tempo fa. Quattro vescovi, in rappresentanza di tutte le province ecclesiastiche, sono andati ad ascoltare e farsi carico dei loro dolori, delle loro sofferenze. Hanno condiviso con i sacerdoti che sono lì ogni preoccupazione ed ogni anelito di speranza. Ma abbiamo messo in campo anche azioni di solidarietà concreta come la raccolta, ogni domenica, di beni di prima necessità da destinare a chi davvero soffre fame e sete».
Nella provincia di Nampula, ad oltre 700 km a sud di Cabo Delgado, monsignor Citora ha visto con i propri occhi famiglie povere accogliere altre famiglie povere che si erano lasciate alle spalle tutto ciò che possedevano pur di salvarsi la vita: «È questo il segno del vero amore, della vera vicinanza».
In un’intervista ai media vaticani, anche monsignor António Juliasse Ferreira Sandramo, vescovo della diocesi di Pemba che comprende anche l’intera provincia di Cabo Delgado, è tornato a ribadire che queste violenze insensate «stanno continuando a provocare distruzione di vite umane, di numerose infrastrutture, e stanno generando un’insicurezza diffusa». Per questo anche lui ha ringraziato dal più profondo del cuore Leone XIV: «Il Papa, con il suo appello, ha fatto capire al mondo che non esistono guerre degne di essere dimenticate perché ogni conflitto ferisce la vita e offende la dignità della persona umana».
Recentemente, una delegazione della Conferenza episcopale è stata ricevuta dal presidente della repubblica, Daniel Chapo, che ha voluto conoscere le istanze e le proposte della Chiesa locale: «Anche io — ricorda monsignor Citora — facevo parte di quella delegazione. Con il presidente abbiamo parlato dell’urgenza di porre fine alla violenta insurrezione che insanguina il Paese. Quali sono le vie d’uscita? Prima di tutto, il dialogo sincero con chi sta portando avanti la guerra e poi il dialogo anche nella società civile necessario per isolare i gruppi criminali. Ma non solo. Si devono creare anche condizioni di vita buona per i giovani perché sono loro ad essere usati da chi vuole uccidere per accaparrarsi le risorse economiche del sottosuolo, come i ricchi giacimenti di gas».