
di Valerio Palombaro
Un banco di scuola, un lampo accecante e un boato che diventa una cesura tra un prima e un dopo. Poi tante schegge taglienti di vetri che volavano tutto intorno e dentro la pelle. Ricorda così quel giorno di agosto di 80 anni fa Michiko Kodama, un Hibakusha, ovvero una sopravvissuta delle bombe atomiche lanciate alla fine della Seconda guerra mondiale sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. All’epoca Michiko aveva 7 anni e frequentava la seconda elementare in una scuola in legno di Hiroshima. Oggi è segretario generale aggiunto della Fondazione Nihon Hidankyo, insignita lo scorso ottobre del premio Nobel per la pace, che riunisce gli Hibakusha e si batte per l’abolizione delle armi nucleari.
«Fortunatamente, le mie ferite erano lievi: solo tagli causati dai vetri frantumati», racconta ai media vaticani. Ma la sua vita è cambiata per sempre, così come quella di centinaia di migliaia di persone. «Mio padre – ricorda - è riuscito a venire a scuola a cercarmi. Mentre tornavo a casa, portata in spalla da mio padre, ho assistito all'inferno in terra. Ho visto un uomo con la pelle gravemente ustionata e spellata. Una madre con gravi ustioni portava in braccio un bambino, che era nero come il carbone. Ad alcuni erano caduti gli occhi e altri correvano in giro cercando di scappare, tenendosi l’intestino sporgente tra le mani. “Acqua, per favore, dammi dell'acqua”, diverse persone ci si avvicinarono, implorando acqua, ma non potemmo fare nulla per loro e corremmo a casa».
Una bambina è rimasta impressa nei ricordi di Michiko. Era gravemente ustionata e non riusciva nemmeno a parlare. «Era sola, e i suoi occhi imploravano aiuto e acqua. Il suo sguardo è ancora impresso nella mia mente. Non potei fare nulla per lei, nemmeno chiamarla o darle un pò d'acqua. Le passammo accanto, ma mi voltai indietro perché ero preoccupata. Era già crollata a terra».
La bomba atomica sganciata il 6 agosto 1945 su Hiroshima, trasportata dal bombardiere B29 Enola Gay, esplose a circa 600 metri di altezza. Poi, le radiazioni, i potenti raggi di calore, l'esplosione e le onde d'urto coprirono e distrussero all’istante l’intera città. Tre giorni dopo fu la volta di Nagasaki.
«Quel giorno avrei dovuto morire – prosegue Michiko -. Fino a qualche settimana prima del bombardamento atomico, la mia famiglia viveva vicino all'epicentro e io frequentavo una scuola situata a 350 metri da là. Ma la nostra famiglia si trasferì e io cambiai scuola. In seguito ho appreso che circa 400 alunni e 11 insegnanti della mia vecchia scuola furono ustionati e uccisi all’istante dalla bomba, senza lasciare tracce, nemmeno le loro ceneri».
La cugina di Michiko, che per lei era come una sorella maggiore, quel terribile giorno di agosto era andata a lavorare a 500 metri dai luoghi più vicini all’esplosione. «Metà del suo viso, tutta la schiena fino alla caviglia rimasero gravemente ustionate – ricorda -. Le sue ustioni doloranti si infettarono rapidamente e furono prese d’assalto dalle mosche. Presto i vermi si moltiplicarono e le strisciarono sul corpo. Piangeva con un filo di voce. La mattina del terzo giorno, il 9 agosto, spirò tra le mie piccole braccia. Era una studentessa di 14 anni».
Un altro suo cugino di 10 anni, uscì dal bombardamento senza ferite evidenti troppo gravi. «Un giorno iniziò a sanguinare dal naso, vomitò molti coaguli di sangue e morì improvvisamente». Era l’orrore delle radiazioni. Anche se apparentemente sembravano a posto, molti corpi erano stati fatalmente danneggiati internamente. «Alcune persone perdevano i capelli a ciocche. Altre sviluppavano macchie violacee su tutto il viso e il corpo, o soffrivano di diarrea ripetuta e vomitavano sangue. Molti morirono uno dopo l'altro. Si diceva che tali sintomi fossero contagiosi e la gente si spaventò», prosegue ancora Michiko.
Gli Hibakusha che miracolosamente sopravvissero dovettero convivere con il senso di colpa di essere gli unici sopravvissuti. «Soffriamo ancora per le scene, i suoni, le voci e gli odori traumatici dell’inferno che non scompaiono mai dalla nostra mente – ci racconta la donna di 87 anni -. Dopo i bombardamenti atomici, la sofferenza degli Hibakusha è stata profonda e incessante, con difficoltà economiche, pregiudizi e discriminazioni nella società».
Anni dopo il bombardamento atomico, anche la mamma e il papà di Michiko morirono. «Quando rimasi incinta dopo il matrimonio, esitai e soffrii molto per i possibili effetti delle radiazioni sul nascituro, ma alla fine decisi di dare alla luce mia figlia. Crebbe e divenne una bambina sana e brillante. Ma morì di cancro a 45 anni, solo quattro mesi dopo l’insorgere della malattia».
Oggi a Michiko, come agli altri Hibakusha riuniti nell’organizzazione Nihon Hidankyo, non rimane che battersi per un mondo libero dalla minaccia delle armi nucleari. Otto anni fa, nel 2017, è stato adottato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. La Santa Sede ha firmato e ratificato questo strumento internazionale il 20 settembre del 2017, nel primo giorno utile per la ratifica. E nel gennaio 2021 è stato raggiunto lo storico traguardo dell’entrata in vigore grazie al superamento delle 50 ratifiche. Ma molta strada deve ancora essere fatta, perché troppi Stati non abbandonano la logica della deterrenza. «Non dobbiamo permettere – conclude Michiko - che la sofferenza infernale che abbiamo sperimentato si ripeta. E finché avremo forza la nostra testimonianza sarà là a ricordarlo».