
di Fabrizio Casa
«Dunque tu saresti el Niño. Qual è il tuo vero nome, mucciaccio? To nombre?».
«Schiavo!».
«Questo lo so. Dico di battesimo: Pedro, Diego?».
«Francisco, arghentino como el Papa».
«Come Francesco Totti, piuttosto, campione del mondo nel 2006» sentenziò il presidente del Castelvento dalla sua poltrona manageriale.
«Schiavo è nato nel 2006...» precisò il direttore sportivo, che lo aveva pescato in una sperduta landa della Terra del Fuoco.
Il presidente mandò uno sguardo entusiasta a quel pezzo di ragazzo dai bicipiti possenti e dall’espressione vacua.
«Un centrattacco che si chiama Francesco, nato nel 2006, argentino...» continuò sognante.
«Se è per questo il posto da cui proviene si chiama Rivera...».
«Come il Gianni del Milan, l’abatino, il golden boy?».
Il presidente era raggiante.
«Questi sono segni del destino: te lo dice uno che di calcio se ne intende. Fra qualche mese faranno la fila per averlo! Ma non solo i procuratori. Sai quante femmine impalmerà questo torello della pampa? Ti piacciono le ragazze, Francisco?».
«Schiavo» rispose meccanicamente il torello.
«È l’effetto del fuso, è ancora un po’ rincoglionito» lo giustificò il direttore sportivo. «Comunque la pampa è un po’ più a nord di Rivera».
«Ti mettiamo qui allo stadio, nella dependans vicino agli spogliatoi».
«La casa del custode» precisò il direttore sportivo.
«Buena fortuna!» augurò il presidente che voleva far sentire il suo pupillo a casa propria.
«Suerte» tradusse il direttore sportivo a Schiavo, che continuava a fissare un punto imprecisato al di sopra della scrivania.
«A proposito — aggiunse il presidente — con chi è in camera?»
***
Gallone era l’unico inquilino che abitava la casupola ricavata dalla vecchia palestra in disuso. Stava sulla porta, in attesa del nuovo compagno. Con curiosità. Con una certa ansia, anzi, perché i mesi trascorsi da solo in quel tugurio iniziavano a pesargli.
Schiavo, guidato dall’alacre direttore sportivo, gli sfilò davanti tirandosi il trolley, come se nemmeno si accorgesse della sua presenza.
«Lui è Schiavo Francisco, il nuovo nove argentino» annunciò il diesse.
«Parla italiano?».
«Manco una parola».
«Gallone Carmine» si presentò Gallone stringendogli la mano. Era moscia come la postura di Francisco.
«Stasera lo porti in pizzeria, per festeggiare. Offre il presidente».
«Te gusta la pizza, Francisco? Napoletana! In Argentina mangiate la pizza?».
«Pidsa» ripeté il ragazzo e si voltò per disfare la valigia.
***
Schiavo era un cristiano alto più di uno e novanta, spalle massicce, delle cosce che sembrava un cinghiale, collo taurino, espressione stolida sotto una capigliatura riccia e abbondante. Silenzioso e riservato, si faceva notare solo per la sua mole e per il fatto di chiedere scusa ogni volta che in allenamento commetteva un fallo. Si diceva che a Rivera avesse segnato 500 gol, ma quando al primo allenamento contro gli allievi segnò a porta vuota ed esultò gridando «quinientos uno» Gallone iniziò a capire che non era quel fenomeno che raccontava il presidente.
Nella squadra era l’unico che tentava di comunicare con lui, anche perché abitandoci insieme lo sentiva quasi come un obbligo. Basso, tarchiato, la pelata arrossata dal sole degli anni trascorsi sui campi di calcio, a 38 anni Carmine Gallone raggranellava tra i semiprofessionisti gli ultimi stipendi di una grama carriera, che l’aveva portato coi suoi sogni di ragazzo del Salento a vestire le maglie di diverse squadre del Nord, sempre in bilico tra l’anonimato e la retrocessione tra i Dilettanti. Il massimo riconoscimento ottenuto era stato quello di comparire microscopico sull’album delle figurine Panini nella fotografia di una squadra di C1 e di essere inserito nelle file del Fantacalcio quando aveva fatto una comparsata in B, peraltro senza mai esordire. Tuttavia era riuscito a mantenersi a galla: a ogni nuova stagione, mentre vedeva i più fortunati e validi approdare ai club delle serie maggiori, si aggrappava ai suoi polpacci da podista e ai muscoli da lottatore per strappare un nuovo ingaggio.
Fin da subito aveva capito che Schiavo non aveva speranze e, quel che è peggio, aveva compreso che anche il ragazzo se ne era reso conto, nonostante la sua storditezza. Il mister non lo portava neanche in panchina, ma lui non reagiva: passava il tempo confinato nello stadio, diviso tra il campo di allenamento e la camera che abitavano insieme. Se Gallone provava a parlargli, Schiavo si trincerava dietro l’ignoranza della lingua e s’immergeva nella «Settimana Enigmistica». Salvo poi constatare che era rapido e preciso a risolvere gli schemi, in italiano per giunta.
***
Ma venne il giorno di gloria anche per l’oriundo, come lo chiamavano all’interno della squadra, ignorando il promettente soprannome di el Niño con cui si era presentato. Era stata una settimana di nebbie e pioggia ininterrotta, il Po minacciava di straripare, una misteriosa influenza virale aveva falcidiato il Castelvento. Piuttosto che chiamare uno juniores, l’allenatore decise di far giocare Schiavo. Glielo disse la sera del sabato e, per la prima volta dopo mesi, Gallone vide Schiavo mostrare una reazione. Anzi, molto di più: era entrato in fibrillazione.
Fu in quella notte che, come la pioggia che scendeva torrenziale e il Po che non si riusciva ad arginare, Schiavo scardinò le chiuse e raccontò al compagno, in un italiano neanche troppo stentato, la sua storia. Che, pur narrata incessantemente fino all’alba con dovizia di particolari, si poteva riassumere in quattro parole. Schiavo era una fregatura, il prodotto di una truffa, organizzata dal presidente del Rivera, una squadretta di provincia per la quale il ragazzo faceva il factotum: custode dello stadio, magazziniere, autista e guardia del corpo. Il trucco stava nell’omonimia con lo Schiavo di un’altra squadra, quello sì forte, un centrattacco dalla corporatura possente, soprannominato el Niño, in onore del ciclone che ciclicamente falcidiava il continente americano.
La somiglianza con il fisico del vero Niño, il desiderio del ragazzo di tentare la fortuna, l’avidità del presidente del Rivera avevano fatto sì che l’affare venisse perfezionato, anche perché Francisco poteva vantare un bisnonno di Gallipoli che gli dava diritto alla cittadinanza.
Quella notte, quando Gallone venne a sapere che Schiavo era un conterraneo, gli gettò le braccia al collo e lo elesse a suo migliore amico. Lo aiutò a risolvere il cruciverba senza schema e se ne andarono a letto felici e contenti.
La domenica della partita i due non avevano praticamente chiuso occhio. Il campo era una risaia, pioveva a vento e faceva un freddo cane. Gli avversari non erano granché, ma il problema del Castelvento stava tutto in quel centrattacco alto e scoordinato che non riusciva a trovare l’equilibrio e finiva per pattinare sul fango con effetti comici o drammatici, a seconda dei punti di vista.
Ma il destino benevolo che gli aveva concesso l’esordio sembrò sorridergli ancora. Su un’azione di contropiede arrivò un lungo passaggio spiovente. Schiavo, fidando nella sua statura, intravide l’occasione per fare finalmente qualcosa di buono. Ma il suo non era il fisico di un calciatore. Lo slancio dissennato lo portò a mancare clamorosamente il pallone, con la conseguenza di atterrare goffamente a gambe per aria. Col sedere per terra continuò per inerzia a scivolare sul fango, travolgendo gli ostacoli che si frapponevano. Che nell’ordine furono: le caviglie del terzino, gli stinchi del libero, il corpo del portiere che aveva abbrancato la palla. Dall’incastro di muscoli e arti che si era venuto a creare in area di rigore, solo un corpo si alzò indenne: quello di Schiavo, che si guardava intorno cercando rassicurazione. Ma invece di un gesto di conforto si beccò spinte, sputi e insulti dai compagni di squadra delle sue vittime, accorsi in massa. Quando poi l’arbitro gli sventolò in faccia il cartellino rosso decise che la misura era colma: si scrollò di dosso gli altri energumeni, con una mano sollevò per il colletto l’uomo in nero e con l’altra gli assestò due ceffoni. Gallone accorse che il guaio era ormai combinato. Poté solo farsi largo nella rissa per afferrare Schiavo e portarlo via prima che commettesse l’irreparabile.
***
«Ora sono cavoli!». Gallone camminava su e giù senza sosta. «Tu rischi di essere radiato. Ma se squalificano me ho chiuso! Chi mi prende più a giocare? Ma tanto a te che te ne frega? Manco sei un calciatore!».
Erano confinati nella loro camera, in punizione fino a nuovo ordine.
«Ma stai tranquillo che anche tu non la passerai liscia! La disciplinare farà un’inchiesta e scopriranno l’imbroglio».
Schiavo era sul letto a risolvere parole crociate.
«El Niño!» disse Gallone fermandosi improvvisamente. Ci pensò un attimo e non riuscì a trattenere il riso. Schiavo alzò lo sguardo stupito.
«Almeno non potranno dire che hai rubato anche il soprannome! Li hai stesi come birilli quei tre. E l’arbitro? “L’ammonisco 9”. E beccati una sberla! “La espello”. E beccatene un’altra!».
E rifaceva la scena ridendo come un matto. Schiavo abbandonò la solita espressione vacua. Ora guardava incuriosito l’amico che gli faceva il verso. Ma Gallone riacquistò di colpo tutta la sua serietà.
«Amico mio, sono guai grossi. Ho proprio paura che questa sarà la mia ultima partita. Se non mi squalifica il giudice, mi caccia il presidente. Ho chiuso col calcio. In un modo o nell’altro mi mandano a casa».
«Casa?» ripeté Schiavo piantando gli occhi in quelli del compagno.
***
Un’ora dopo il vecchio Guzzi sottratto all’ancor più vecchio custode rombava sull’autostrada del Sole, destinazione Bologna. Man mano che si avvicinavano all’Appennino la nebbia diradava facendo intravedere le stelle. All’alba presero il caffè a Pisa, perché Schiavo voleva ammirare la Torre Pendente. Poi proseguirono lungo l’Aurelia, perché Schiavo voleva vedere le spiagge del Mediterraneo. Pranzarono a Roma dove stettero fino a sera, perché Schiavo era cattolico osservante e ci teneva a visitare San Pietro e il Papa suo conterraneo. Di notte lambirono Napoli, transitarono in Irpinia e al mattino sbucarono nel Tavoliere delle Puglie. All’una in punto Gallone si fermò davanti al cartello con la scritta Gallipoli, scese dalla moto e abbracciò Schiavo. La notte dormirono finalmente in un letto con le lenzuola inamidate alla masseria di casa Gallone, nelle campagne di Santa Maria di Leuca.
***
Dieci anni sono trascorsi da quella domenica in cui il Castelvento toccò il punto più basso della sua storia calcistica. Il presidente si è dimesso l’anno dopo per la contestazione dei tifosi, quello del Rivera è finito in carcere e non si sa quando ne uscirà. Il direttore sportivo ha continuato a fare la spola tra Italia e terzo mondo, per arricchirsi con talenti sulla parola e fregature di fatto. L’arbitro malmenato da Schiavo è diventato un internazionale e racconta ancora quell’aneddoto di inizio carriera, quando si era trovato a fronteggiare un bestione infuriato (ma evita di menzionare i ceffoni presi). Gallone si è ritirato nella masseria di famiglia, ereditata dalla madre che nel frattempo è passata a miglior vita. Terminato il lutto, ha conosciuto Birgith, una turista danese, l’ha messa incinta e l’ha subito sposata. Dopo lunghe trattative, Birgith lo ha convinto a rinnovare la proprietà, che ora è diventata un apprezzato agriturismo. Tra figlia e masseria è molto occupato: nel poco tempo libero che gli rimane allena le giovani promesse locali. Schiavo è andato a vivere nell’ovile diroccato di Gallone. Poco alla volta ha stuccato una parete, tirato su un muretto, incatramato il tetto. Ora si è deciso a costruire il bagno, ma per metà la casa è ancora inagibile. Nel frattempo, oltre all’enigmistica, ha scoperto un’altra passione: l’enologia. Ha ripiantato tutta la vigna dei Gallone, ha comprato insieme a Carmine qualche altro appezzamento e ha incrociato il negramaro locale con malvasia. Ne ha tirato fuori un rosso di buon corpo che ha preso due bicchieri dal Gambero Rosso, il quale non ne ha concessi tre per via dell’orribile etichetta: una porta di calcio in cui finisce dentro un pallone con sopra scritto El Niño.