· Città del Vaticano ·

A colloquio con Anwar Abu Eisheh, docente ed ex ministro dell’Autorità nazionale palestinese

Vivere a Hebron e sperare in una soluzione a due Stati

 Vivere a Hebron  e sperare in una soluzione a due Stati  QUO-183
08 agosto 2025

da Ponte di Legno
Giada Aquilino

È docente di diritto alla Al Quds University di Hebron, in Cisgiordania, ha un passato da ministro della Cultura dell’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas tra il 2013 e il 2014. Anwar Abu Eisheh ai giovani partecipanti dell’international summer university di Tonalestate, in corso fino a domani tra Ponte di Legno, Passo del Tonale e Vermiglio, parla della Palestina snocciolando un racconto che sa di resilienza, di pazienza e perfino di ottimismo nonostante, dice, Hebron sia sempre più sotto la morsa dell’esercito e dei coloni israeliani. «Con 250.000 abitanti, in città non c’è nemmeno l’1% di spazi verdi, mentre nella colonia più vicina ce ne sono il 20%. Questo accade per tutto, dall’acqua all’elettricità», riferisce.

Com’è vivere in Cisgiordania?

La città vecchia di Hebron copre un km quadrato di superficie, la stessa della città vecchia di Gerusalemme. Al momento dell’occupazione israeliana nel 1967, lì c’erano 35.000 abitanti e tutt’intorno altri 15.000. Ma nel 1980 sono arrivati i coloni israeliani e vi si sono installati. Hanno occupato una scuola adibita ad accoglienza dei rifugiati palestinesi del 1948, hanno confiscato una clinica dove mia madre era stata curata, la stazione dei bus dove mio padre lavorava come conducente sulla linea tra Hebron e Gerusalemme e anche la mia scuola elementare, che è diventata una scuola religiosa ebraica. E hanno cominciato a obbligare gli abitanti della città vecchia a lasciarla: nel 1993-1994, al momento degli accordi di Oslo, moltissime case erano abbandonate e gli abitanti erano rimasti in 1.000. Io ed altri abbiamo lavorato a lungo per cercare di riabilitare la zona e far tornare le persone a vivere lì. Ma siamo riusciti a far rientrare solo 3-4.000 persone che però poi non sono rimaste. Nel frattempo nel 1997 c’è stata un’intesa, chiamata l’accordo di Hebron, tra l’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndr) e Israele, per cui l’esercito israeliano è andato via da Hebron. Da quel momento la città è stata divisa in Hebron 1 e Hebron 2: nella prima i palestinesi vivevano in autonoma, nella seconda tutto il potere era nelle mani degli israeliani. Nel 2000 c’è stata la seconda intifada e due anni dopo la definizione di Hebron 1 e Hebron 2 è sparita, perché l’esercito ha ripreso tutta la città. Ora, venendo alla questione dell’acqua, va detto che l’acqua è monopolio di Israele, c’è una sola società che gestisce tutta l’acqua di Israele e Palestina. Secondo l’accordo di Hebron, Israele avrebbe dovuto dare a Hebron 28.000 metri cubi d’acqua al giorno, ma la cifra non è stata mai rispettata, nemmeno durante l’estate: Israele fornisce sui 12.000 metri cubi al giorno per 250.000 abitanti e due mesi fa è arrivato a 6.000 metri cubi. Oggi si è sviluppata una sorta di “industria” dell’acqua, presa dalle colonie, che ci viene fatta pagare. A questo bisogna aggiungere, a proposito della libertà di movimento, che in Cisgiordania ci sono almeno 800 posti di blocco israeliani su 2.000 km quadrati.

Com’è cambiata la situazione tra prima e dopo il 7 ottobre 2023?

Il cambiamento consiste nel fatto che hanno costruito più colonie, distrutto più case palestinesi, murato tantissimi pozzi d’acqua e hanno proibito ai contadini di averne. Con l’arrivo dell’estrema destra al potere in Israele la situazione a Hebron è esplosa e le aggressioni dei coloni sono aumentate. Il 7 ottobre ha aggravato tutta la situazione. Faccio parte di un comitato per la comunicazione con la società civile israeliana, fondato nel 2014. Andavamo nei kibbutz o a Tel Aviv. Molti degli israeliani che conoscevo e con cui dialogavo hanno cambiato atteggiamento, in senso radicale, tanto che il dialogo e gli incontri si sono interrotti. Inoltre, prima potevo andare a Gerusalemme senza chiedere il permesso, perché le persone sopra i 55 anni potevano farlo: dopo il 7 ottobre non è più possibile, nessun palestinese può entrare. Quasi 200.000 operai che andavano ogni giorno a lavorare in Israele sono rimasti senza un impiego. E il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha cominciato anche a non versare più all’Autorità palestinese i soldi per gli stipendi alla popolazione, nonostante fossero previsti dagli accordi di Oslo. La situazione si è aggravata, le città sono di fatto chiuse, tutto è più caro e la vita è diventata un inferno.

Mentre parliamo, lei ha fatto osservare ai lavori del convegno, a Gaza ci sono persone che stanno morendo di fame. In questi giorni abbiamo sentito tanti leader internazionali ripetere affermazioni di fatto opposte e contrastanti tra loro sulla fame a Gaza. Cosa rispondere?

La risposta è molto semplice. Israele ha impedito a tutti i giornalisti stranieri di andare a Gaza: bisognerebbe semplicemente far entrare i reporter per testimoniarlo. Ci sono poi già molte testimonianze affidabili di ong internazionali, come Medici senza frontiere e sanitari americani, britannici e francesi. Nei video, la gente che muore di fame è qualcosa che salta agli occhi. Lo ha detto anche il presidente statunitense Donald Trump. Gaza è una zona circondata di fatto dal 2007, con la popolazione chiusa al suo interno e i militari israeliani su tutte le frontiere. Avevano detto di aver calcolato di quante calorie quotidiane avesse bisogno un abitante di Gaza, circa 3.000, e prima del 7 ottobre facevano entrare solo quelle derrate. Dopo quella data tutto è stato interdetto o limitato. Ma tutte le istituzioni internazionali sono concordi nel confermare che la fame purtroppo c’è.

Recentemente il dibattito sul riconoscimento dello Stato di Palestina si è riacceso, la Francia ha annunciato che lo riconoscerà a settembre, così come altri Stati. Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ha ricordato che la Santa Sede lo ha fatto già da tempo. Quanto è importante questo passaggio per la pace?

Noi crediamo che la fine di questa guerra e del conflitto in generale può venire solo dal diritto internazionale, quindi da una pressione internazionale sul governo israeliano. La Francia e gli altri Stati hanno un interesse loro in questo riconoscimento: l’opinione pubblica, l’instabilità, le migrazioni, la comprensione tra i popoli. Sappiamo che il rapporto di forza attuale non cambierà le cose, ma è comunque un passo per andare avanti e arrivare a una soluzione a due Stati e, per quanto riguarda quello palestinese, puntiamo a che sia laico e democratico.