
di Matteo Frascadore
Negli ultimi mesi sono stati registrati nuovi avvistamenti e movimenti di gruppi Mashco Piro lungo i fiumi Las Piedras e Alto Madre de Dios, nel cuore dell’Amazzonia peruviana. A darne notizia è stata la Fenamad (Federación Nativa del Río Madre de Dios y Afluentes), organizzazione rappresentativa dei popoli indigeni attiva in quelle regioni. Questi episodi, apparentemente innocui, possono avere conseguenze drammatiche: per i popoli incontattati, ogni incontro con il mondo esterno rappresenta una minaccia potenzialmente fatale.
I Mashco Piro fanno parte dei Piaci, sigla con cui si identificano i popoli indigeni in isolamento volontario o in fase di primo contatto. Sono comunità che hanno scelto consapevolmente di vivere ai margini del mondo moderno per custodire la propria identità, i propri saperi e un equilibrio culturale e ambientale estremamente delicato. Il primo contatto, spesso casuale e non desiderato, può rivelarsi devastante, sia per i rischi sanitari che per lo shock culturale.
Il Perú riconosce formalmente l’esistenza di almeno 25 popoli in questa condizione e, dal 2006, ha istituito il “derecho a la no intervención”, il diritto alla non interferenza, accompagnato dalla creazione di riserve territoriali specifiche. Tra queste figurano la Riserva Mashco Piro, Madre de Dios, Isconahua e Kugapakori-Nahua-Nanti. Tuttavia, ad oggi solo 5 riserve sono state ufficialmente riconosciute su 25 richieste: un dato che rivela una fragilità strutturale in merito alla protezione di questi popoli.
A livello nazionale, l’Aidesep (Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana) ha denunciato ripetutamente i ritardi dello Stato peruviano nel processo di istituzione di nuove riserve e ha lanciato l’allarme contro iniziative legislative che potrebbero indebolire le tutele già esistenti. I Mashco Piro, in particolare, hanno reagito con grida e frecce agli avvicinamenti di taglialegna e minatori: una risposta di difesa maturata dopo violenze, schiavitù e malattie subite nel corso dei passati decenni. Oggi si muovono seguendo i ritmi stagionali lungo i fiumi, vivendo di caccia, pesca e raccolta e mantenendo una relazione armonica e non estrattiva con l’ambiente.
Ma proprio le attività estrattive rappresentano una delle principali minacce: l’Aidesep ha più volte denunciato l’imposizione di progetti ambientali, come il programma internazionale Redd+ per la riduzione delle emissioni da deforestazione, attuati senza consultazione delle comunità indigene. In più occasioni le popolazioni locali hanno sottolineato come dietro la retorica della “conservazione” si nascondano interessi economici e forme di colonizzazione ambientale. «I popoli isolati non possono firmare accordi né esprimere consenso. Ed è proprio per questo che devono essere protetti con maggiore rigore», ha dichiarato l’Aidesep in un comunicato nei mesi scorsi.
Un esempio emblematico riguarda la Riserva Indígena Sierra del Divisor Occidental, pensata per proteggere i popoli Remo, Mayoruna e Kapanawa: la sua istituzione, attesa da quasi vent’anni, è stata continuamente posticipata, esponendo queste comunità a rischi sanitari e culturali enormi.
Accanto alle minacce storiche e istituzionali, se ne è affacciata una nuova, figlia della modernità digitale: l’esotismo 2.0. Oggi, la curiosità verso i popoli incontattati si è trasferita sulle piattaforme social, dove video, foto e post sugli “avvistamenti” diventano virali. Alcuni influencer si spingono fino a cercare il contatto diretto, trasformando l’incontro con gli indigeni in uno spettacolo per i follower. Ong come Survival International hanno definito queste pratiche una nuova minaccia crescente, chiedendo esplicitamente di non diffondere immagini o video che violino il diritto all’invisibilità. Il rischio è quello di alimentare una “caccia al tesoro” etnografica, basata unicamente su logiche di consumo.
Ogni contatto non desiderato può significare tragedia. Questi popoli non possiedono difese immunitarie contro i virus comuni e una semplice influenza può trasformarsi in epidemia letale. Ma i danni non sono solo sanitari: ogni interferenza può causare il collasso irreversibile di un equilibrio culturale millenario.
La sfida, oggi, è quella di coniugare la tutela dei diritti umani con una concezione della natura non più da sfruttare, ma da condividere. Riconoscere il diritto all’isolamento significa scegliere l’ascolto, il rispetto, la custodia. È un argine contro l’uniformazione culturale, un atto di responsabilità collettiva verso un’umanità diversa ma non distante, portatrice di un sapere che merita di esistere, anche nel silenzio.