· Città del Vaticano ·

L’entusiasmo delle nuove generazioni

Un milione di sogni uniti dalla fede

 Un milione di sogni uniti dalla fede    QUO-179
04 agosto 2025

di Edoardo Giribaldi

Il Papa non è ancora arrivato. Nel pomeriggio di sabato 2 agosto, l’attesa prende vita. Corpo, respiro, pelle bruciata — nonostante le raccomandazioni di portare la crema solare — dai raggi che di tanto in tanto si fanno largo tra le nuvole. Occhi che cercano un punto d’ombra. Perché forse è vero quello che scriveva lo scrittore Jorge Luis Borges in Finzioni: «Esiste un’ora del pomeriggio in cui la pianura sta per dire qualcosa». Quel «qualcosa» sono le parole del Pontefice, di Leone XIV. La pianura è quella di Tor Vergata.

Il cielo è largo, il caldo sfianca, ma tiene svegli anche i non insonni. Il prato è una distesa di colori: tende leggere, zaini aperti da cui spuntano bagliori di carte stagnole che avvolgono panini mangiati a metà. Bottiglie d’acqua ormai tiepida, caricatori portatili.

L’animazione sul palco principale prende il via a partire dalle 14. La musica si alterna alle testimonianze: storie di vita, di fede, di dubbi, di crescita o rinascita. I primi gruppi a salire sul palco sono l’Orchestra Pem Bresciana, la Blind Inclusive Orchestra — il primo complesso sinfonico per musicisti ciechi e ipovedenti — e l’Alleluya Malawi Band, che promuove la cultura tradizionale attraverso canti e danze delle tribù precoloniali.

C’è chi preferisce la lettura. Tra le borse si scorge, ad esempio La luna e i falò, di Cesare Pavese. «Un Paese ci vuole», scriveva lo scrittore piemontese, ed effettivamente ogni settore della spianata assomiglia proprio a una piccola comunità, con abitudini collettive e specifiche per ciascun gruppo.

Da un angolo arrivano le note di una chitarra mal accordata: un gruppo di pellegrini — provenienti proprio dai luoghi di Pavese, da Torino per l’esattezza — canta La canzone del sole, poi passa a Maledetta primavera, ma con l’accompagnamento non live: è quello disponibile sul web. La voce di Loretta Goggi rimbalza, un po’ nostalgica. «Siamo venute qui, lo abbiamo fatto per il plot», dice Livia. Il naso leggermente scottato, gestisce cassa bluetooth e selezione musicale con la stessa concentrazione di un dj in chiusura di serata. «Per il plot», si intende per la storia, per vivere qualcosa fuori dalla propria comfort zone, qualcosa da ricordare, come in un film o in una serie tv. «Basta, che mi si scarica il telefono», taglia corto Livia. La musica si interrompe. Sipario.

Nuova scena. Da un altro lato, si sentono voci americane. Cantano una versione acustica, unplugged, di Under the Bridge dei Red Hot Chili Peppers, ma sottovoce, come se volessero rispettare le esibizioni degli artisti sul palco principale. Tra di essi ci sono i The Sun, la rock band italiana nata nel 1997 che, intervistata nei giorni scorsi dai media vaticani, ha definito la vita «piena» nel valore dell’amicizia, rispecchiata nella figura di Gesù.

Ma anche il coro Hakuna Group Music, nato durante la Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro nel 2013. Un ragazzo, Tristan, mostra una collanina al collo e un’altra in mano, ancora nella confezione plastificata. È il Tau francescano. «Questa è per mia madre. Da Assisi, straight from Assisi», dice, come fosse un cimelio. I suoi amici spiegano biglietti dell’autobus e tracciano itinerari su Google Maps: Roma, Marsiglia, Barcellona. Un tour dell’Europa come la tradizione statunitense vuole. Ogni tappa, per Tristan, è un modo per dire: «È qui e ora. Stiamo vivendo».

Più in là, sotto un telo tirato tra due pali, Stromae canta in francese Tous les mêmes. È la colonna sonora scelta da Amina, arrivata dalla banlieue parigina. Indossa un cappellino da baseball, ai piedi calza scarpe sportive. «Nel mio quartiere la fede è silenzio. Qui, urla e canta», riflette. Di famiglia musulmana, è partita con il gruppo interreligioso della sua università, dove ha trovato accoglienza anche tra i cattolici. «Non mi sono mai sentita in dovere di giustificarmi. Ed è forse la prima volta che mi accade. La cosa bella è che qui ci si ascolta anche senza parlare la stessa lingua».

Spostandosi ancora, l’atmosfera cambia. La musica cala, si fa in tempo a vedere il lancio del video che promuove la prossima Gmg, in programma a Seoul, in Corea del Sud, nel 2027. Rimbomba il suono secco di un pallone che rimbalza sul terreno asciutto. Una partita di calcio improvvisata è in corso: zaini come porte, borracce come bandierine del calcio d’angolo. Mateo, colombiano di Medellín, gioca con la maglia di Lamine Yamal, fuoriclasse del Barcellona.

Fa un gol di rabona, poi alza le mani in segno di scusa. Applausi. «Quando tornerò a casa, dirò che ho dormito in mezzo a... boh, migliaia? Milioni di giovani. Sono cresciuto in una città difficile», dice, riferendosi alla piaga della droga che segna Medellín. «Ma stasera dormo tranquillo». Ride e si toglie le scarpe. Ha i calzini bucati. Un tifo da stadio accompagna anche le altre partite di calcio che animano diversi gruppi.

Su un campo da pallavolo improvvisato, svetta Joy, 21 anni, da Lagos, Nigeria. È arrivata a Roma grazie a una raccolta fondi organizzata dalla sua parrocchia. Ha incontrato Beatrice, una delle ragazze torinesi che cantava Lucio Battisti. Ora condividono la merenda. «Io ho vissuto la povertà», afferma Joy. «Ma stanotte, mangiando biscotti stranieri, posso parlare di pace. Questi sono buonissimi! Come si chiamano?»

Qualcuno applaude, non per un altro gol di Mateo. Ma senza sapere perché. Sembra davvero che la pianura stia per dire qualcosa. «Non lo dice mai», scriveva ancora Borges. O forse lo dice un’infinità di volte e noi non la capiamo, o la capiamo ma è intraducibile come una musica. E forse non importa se si tratta di quella dei The Sun, o di quella dei Red Hot Chili Peppers. Perché, in fondo, se un giovane fatica a capire — per quanto spaventoso possa sembrare — non dovrebbe preoccuparsi: il Papa arriva presto.