· Città del Vaticano ·

Per la prima volta la Chiesa ha dedicato un momento dell’Anno Santo a chi evangelizza attraverso i social

Non solo follower
Il Giubileo che riconosce
la missione online

 Non solo follower  Il Giubileo che riconosce la missione online   QUO-175
30 luglio 2025

di Fabio Colagrande

«Siate agenti di comunione, capaci di rompere le logiche della divisione e dell’individualismo. Siate centrati su Cristo, per vincere le logiche del mondo». Con queste parole Leone XIV, il 29 luglio 2025, ha salutato nella basilica di San Pietro i partecipanti al primo Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici, incoraggiandoli a continuare la loro missione nel cuore del mondo digitale.

L’inedito giubileo tematico si era aperto, lunedì 28 luglio, nell’Auditorium di via della Conciliazione, con l’evento inaugurale, introdotto dall’intervento del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin. Il giorno seguente, dopo il pellegrinaggio giubilare e il passaggio della Porta Santa, la messa celebrata in San Pietro dal cardinale Luis Antonio Tagle, con l’intervento finale del Papa, nel pomeriggio si è svolto l’incontro ecumenico «Together for hope». In serata il festival conclusivo in piazza Risorgimento ha celebrato attraverso musica e testimonianze la missione di chi porta speranza nel mondo digitale.

Per molti dei partecipanti e degli studiosi e osservatori del mondo social, quello vissuto a Roma, seppure in sole 48 ore, è stato un momento storico. La Chiesa ha infatti riconosciuto, in ambito giubilare, l’evangelizzazione digitale come una forma di missione. Come osserva Raffaele Buscemi, docente di comunicazione alla Pontificia Università della Santa Croce, si è trattato di «un gesto di fiducia e di ascolto», ma anche di una chiamata alla responsabilità. «Le persone oggi vivono la fede anche attraverso schermi, feed e contenuti condivisi», spiega. «Non basta più dire che i social sono uno strumento: sono diventati un ambiente e lì va portato il Vangelo». Guido Mocellin, giornalista del quotidiano Avvenire e curatore delle rubriche WikiChiesa e Missionari digitali, definisce invece questo Giubileo «la risposta della Chiesa a un segno dei tempi». Dopo la pandemia e la riflessione del Sinodo, era inevitabile che le figure dei missionari digitali trovassero un riconoscimento anche all’interno dell’Anno Santo.

Questo Giubileo tematico ha messo in luce la pluralità di linguaggi e carismi presenti nel mondo cattolico digitale. A raccontarlo sono Tommaso Cardinale e Francesco D’Ugo, fondatori della community social @lacchiesa, che con ironia e competenza intercetta ogni giorno migliaia di utenti: «È bellissimo vedere Giovanni che commenta il Vangelo con i Lego, Mariella che evangelizza con le sue illustrazioni, i ragazzi della Fraternità con i loro super eventi... E poi ci siamo noi e Cattonerd con i meme. È una costellazione globale». «Ci chiediamo però — aggiungono con un pizzico di provocazione — cosa offre a tutti loro la Chiesa come istituzione?». Anche Eleonora Commentucci, della Community Fraternità, nata dall’attività online di don Alberto Ravagnani, racconta di aver scoperto una realtà viva e dinamica. «Questo Giubileo — ha detto — è stato un’occasione per fare rete, per riscoprire l’essenziale, per mostrare alla Chiesa e al mondo il potenziale del digitale quando è vissuto al servizio del Bene».

Un punto condiviso da tutti è la consapevolezza che non basta «fare numeri» o produrre contenuti virali. L’evangelizzazione digitale non può essere ridotta a una strategia di marketing spirituale. «Il rischio — avverte Buscemi — è trasformare la fede in un contenuto da vendere». Il centro, come ha ricordato Leone XIV, dev’essere sempre Cristo, non il profilo personale. E i follower devono diventare fratelli e sorelle, legati da relazioni vere. Anche Mocellin mette in guardia da una visione puramente quantitativa del fenomeno: «In alcune aree linguistiche i missionari digitali hanno numeri da rockstar, ma ciò che conta davvero è quando si riesce a generare comunità reali intorno a uno stile e a una proposta cristiana». Un passaggio dalla rete «come mezzo» alla rete «come luogo di comunione».

Raccontare con credibilità che la fede è vita e accoglienza, commenta ancora Eleonora Commentucci, è oggi una sfida cruciale, specie per chi si rivolge ai giovani più lontani dalla Chiesa. «Molti di loro pensano che il cristianesimo sia giudicante e chiuso. Se riusciamo a testimoniare che la fede è gioia, libertà e amore, possiamo davvero aprire varchi nella distanza». Ma per farlo servono formazione, discernimento e responsabilità. «Un post brutto — spiegano con sincerità Cardinale e D’Ugo — non fa bene a nessuno. Bisogna imparare il mestiere, ma senza copiare chi è più famoso. E non rinchiudersi nella propria “bolla” ecclesiale». «In Italia — aggiungono — ci si aspetta molto dai cosiddetti “preti influencer” ma i veri game changer possono essere i laici, che possono arrivare a più persone».

Anche secondo Mocellin è urgente investire in risorse adeguate, figure professionali di supporto, e serve maggiore consapevolezza ecclesiale. «Ad esempio — osserva — al Sinodo si è molto parlato della missione digitale, ma pochi missionari digitali hanno parlato, sui loro social, del Sinodo».

Infine, osserva Buscemi, bisogna interrogarsi sul linguaggio stesso: il termine “missionario digitale” può risultare troppo ecclesiastico per i lontani, mentre “influencer cattolico” può banalizzare l’annuncio. Serve, forse, un nuovo vocabolario, capace di dire profondamente la novità di questa forma di testimonianza.

I missionari digitali, come hanno dimostrato le parole del Pontefice, sono una risorsa ecclesiale preziosa per rianimare la speranza giubilare che si fonda sulla fede. Alla Chiesa tocca il compito di valorizzarla e guidarla, lasciandola allo stesso tempo libera di esprimere la sua creatività con le forme e i linguaggi nuovi che i tempi richiedono e lo Spirito che soffia ovunque può produrre.