La fame, la guerra

di Andrea Monda
La fame come strumento bellico, come arma letale. Come si faceva nei secoli antichi in cui si assediavano le città e le si prendeva appunto “per fame”. Tutto questo oggi. È quanto emerge dalla cronaca che arriva quotidianamente dal Medio Oriente e dal monito di lunedì scorso del segretario generale dell’Onu António Guterres a non usare la fame «come arma di guerra» proprio mentre la Fao pubblicava l’annuale Rapporto sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo.
Per sfuggire alla tragedia della fame migliaia di persone sono costrette a migrare. Questi migranti che per la piaga della fame o per altre cause, tra le quali anche la propria ricerca della felicità, si muovono in grandi numeri nel mondo, di fatto lo scompigliano. A guardarli da lontano, e stando bene al comodo, possono apparire delle persone disperate. Ma questa, appunto, è solo l’apparenza. Nel messaggio per la 111ª Giornata mondiale del Migrante e Rifugiato pubblicato lo scorso 25 luglio, Papa Leone ha realizzato uno stretto «collegamento tra migrazione e speranza» che, scrive il Pontefice, «si rivela distintamente in molte delle esperienze migratorie dei nostri giorni. Molti migranti, rifugiati e sfollati sono testimoni privilegiati della speranza vissuta nella quotidianità, attraverso il loro affidarsi a Dio e la loro sopportazione delle avversità in vista di un futuro, nel quale intravedono l’avvicinarsi della felicità, dello sviluppo umano integrale […] In un mondo oscurato da guerre e ingiustizie, anche lì dove tutto sembra perduto, i migranti e i rifugiati si ergono a messaggeri di speranza. Il loro coraggio e la loro tenacia è testimonianza eroica di una fede che vede oltre quello che i nostri occhi possono vedere e che dona loro la forza di sfidare la morte nelle diverse rotte migratorie contemporanee».
Messaggeri di speranza, questo sono i migranti. Non basta, essi sono anche portatori di salvezza, come già diceva Papa Francesco: quello “scompiglio” che queste persone portano con il loro arrivo, è benefico, fecondo. Soprattutto per la Chiesa, Leone lo dice chiaramente: «I migranti e i rifugiati ricordano alla Chiesa la sua dimensione pellegrina, perennemente protesa verso il raggiungimento della patria definitiva, sostenuta da una speranza che è virtù teologale. Ogni volta che la Chiesa cede alla tentazione di “sedentarizzazione” e smette di essere civitas peregrina – popolo di Dio pellegrinante verso la patria celeste (Cfr. Agostino, De civitate Dei, Libro XIV-XVI), essa smette di essere “nel mondo” e diventa “del mondo” (cfr. Gv 15,19). […] Essi, infatti, con il loro entusiasmo spirituale e la loro vitalità possono contribuire a rivitalizzare comunità ecclesiali irrigidite ed appesantite, in cui avanza minacciosamente il deserto spirituale. La loro presenza va allora riconosciuta ed apprezzata come una vera benedizione divina, un’occasione per aprirsi alla grazia di Dio che dona nuova energia e speranza alla sua Chiesa: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2).
Allora sale potentemente il sospetto che i disperati non siano loro, i migranti. Il cardinale Biffi, arcivescovo di Bologna, parlando alla sua città definì quella società “sazia e disperata”. Mai parole più precise. Un uomo sazio, che è “pieno”, sente crescere un vuoto dentro di sé, una sensazione di frustrazione, un senso di disperazione. Un uomo affamato vive di speranza e cammina coraggiosamente nel mondo grazie a questa virtù. Proprio come faceva intuire la parabola di Gesù del ricco epulone, che non ha nome, “epulone” significa banchettatore. Quest’uomo non ha identità, è schiacciato sul “fare”, lui è identificato per il suo ruolo, la sua azione; è un uomo senza un passato e senza un futuro, che vive solo per consumare il presente e finisce per consumarsi in questo “presentismo”. Alla sua porta è seduto per terra il povero, Lazzaro, e l’epulone non lo sa ma è proprio questo povero il vero ricco di speranza, e Lazzaro sarebbe anche la sua speranza, se solo gli aprisse quella porta. La fame fisica per cui popoli interi soffrono e muoiono ricorda un’altra fame che abita nel cuore di ogni persona, che nessun cibo sazierà, è necessario però riconoscerlo, sentire che proprio quella fame ci fa fratelli tutti, e allora da strumento di guerra potrà diventare momento di accoglienza, di incontro, di salvezza.