· Città del Vaticano ·

Temi agostiniani in Leone XIV

La centralità di Cristo

 La centralità di Cristo  QUO-174
29 luglio 2025

di Tiziana Campisi

Ritornare «al primato di Cristo nell’annuncio». È una delle priorità di Leone XIV, che due giorni dopo la sua elezione, il 10 maggio, nell’incontro con il Collegio cardinalizio, ha esortato a rinnovare l’adesione al cammino che la Chiesa sta compiendo nel solco del Concilio vaticano II. Il Pontefice ha ricordato che «Papa Francesco ne ha richiamato e attualizzato magistralmente i contenuti nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium», e ha voluto sottolinearne alcune istanze fondamentali, tra le quali, oltre «al primato di Cristo nell’annuncio», la conversione missionaria di tutta la comunità cristiana; la crescita nella collegialità e nella sinodalità; l’attenzione al sensus fidei, specialmente nelle sue forme più proprie e inclusive, come la pietà popolare; la cura amorevole degli ultimi, degli scartati; il dialogo coraggioso e fiducioso con il mondo contemporaneo nelle sue varie componenti e realtà.

La centralità di Cristo è un’altra caratteristica della spiritualità agostiniana e in Leone XIV sta emergendo ampiamente. Agostino conosce Gesù grazie alla madre Monica, che lo educa alla fede cattolica da bambino, ma non vi aderisce. Nell’adolescenza è avvinto dai primi amori, ama trascorrere il suo tempo con gli amici, è attratto dagli spettacoli teatrali, studia retorica, per fare carriera nei fori o nelle municipalità, ma frattanto non rinuncia ai piaceri della vita. La lettura dell’Ortensio di Cicerone, che lo invoglia alla filosofia più nobile, lo segna profondamente. «Mutò il mio modo sentire … — racconterà nelle Confessioni (III, 4,7) —, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore». Quel libro lo stimola, accende e infiamma «ad amare, a cercare, a seguire, a raggiungere, ad abbracciare vigorosamente ... la sapienza in sé e per sé là dov’era».

Rimane, però, deluso dall’«assenza fra quelle pagine del nome di Cristo» che, instillatogli dalla madre, aveva «conservato» nel cuore, «così qualsiasi opera ne mancasse, fosse pure dotta e forbita e veritiera», non lo conquistava «totalmente» (III, 4,8).

L’esuberante ragazzo di Tagaste comincia, allora, a leggere la Sacra Scrittura: «Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri» (III, 5,9). La ritiene «un’opera indegna del paragone con la maestà tulliana», anche perché il suo «gonfio orgoglio» ne «aborriva la ... modestia», la sua «vista non penetrava i suoi recessi». La riconoscerà, poi, fatta «per crescere con i piccoli», ammettendo di avere disdegnato di farsi «piccolo» poiché «gonfio di boria» si credeva «grande» (III, 5,9). Sarà lungo e tortuoso il cammino del giovane numida fino alla conversione, quando decide di rivestirsi «del Signore Gesù Cristo», di allontanarsi definitivamente da «crapule», «ebbrezze», «amplessi» e «impudicizie», di non assecondare «la carne nelle sue concupiscenze» (VIII, 12,29), di votarsi, insomma, totalmente a Dio e di proseguire la sua ricerca della Verità nell’alveo della Chiesa. Da quel momento Cristo diviene il fulcro dell’esistenza di Agostino («colui al quale mi sono interamente dedicato» La controversia accademica II, 1,2).

Riconosciuto centro della fede, essendo l’incarnazione del Verbo di Dio il centro della storia della salvezza, sarà il cuore della sua riflessione teologica. Ma occorre tenere presente che per il santo nordafricano la teologia è sempre filosofia, pur se la parte più alta perché il suo oggetto è Dio.

Certo, ritiratosi a Cassiciaco, nella campagna della Brianza, nell’odierna Lombardia, l’ex retore è ancora intriso di quella filosofia «di questo mondo sensibile» che tanto aveva coinvolto il suo pensiero e alla quale, convertito, contrappone, con il metodo del dialogo, la «vera filosofia» (La controversia accademica III, 19,42), come testimoniano le sue prime opere nate proprio in quel periodo di christianae vitae otium (Ritrattazioni I, 1,1) che precede la preparazione al battesimo. Tuttavia Agostino è convinto che «il Figlio non è detto Dio in senso improprio» (De ordine I, 10,29) e qualche anno dopo, ne La vera religione (16, 30), affermerà che «la stessa Sapienza di Dio, cioè l’unico Figlio consustanziale e coeterno al Padre, si è degnato assumere la natura intera dell’uomo, e il Verbo si è fatto carne e abitò in mezzo a noi». Poi, nel Commento al Vangelo di Giovanni (2, 3), preciserà: «Si è fatto uomo per noi, per poter così portare i deboli attraverso il mare di questo secolo e farlo giungere in patria». Insomma, maturando sempre di più nella fede, anche attraverso lo studio della Scrittura, il vescovo di Ippona si preoccupa di far conoscere Cristo secondo l’insegnamento della Chiesa cattolica, e — come ha spiegato l’agostiniano padre Nello Cipriani in uno dei suoi ultimi scritti (Gesù Cristo nella vita e nella riflessione di sant’Agostino) — di «far crescere i fedeli nella conoscenza e nell’amore del mistero di Cristo, al fine di farli unire in modo sempre più stretto a lui, il Capo, e al suo corpo, che è la Chiesa», e «guidarli a vivere un’autentica esperienza cristiana, in modo che alla corretta professione della dottrina cattolica corrispondesse una fede autenticamente vissuta».

«Portare Cristo a tutti i popoli» è pure l’«urgenza» di Leone XIV, sottolineata il 22 maggio scorso nel discorso all’assemblea generale delle Pontificie Opere Missionarie, dopo avere specificato, qualche giorno prima, che il motto scelto per il suo ministero episcopale — «In Illo uno unum» tratto dalle Esposizioni sui Salmi 127, 3 — e confermato per quello petrino, vuole richiamare all’unità in Cristo, perché «la nostra comunione si realizza» se «convergiamo nel Signore Gesù. Più siamo fedeli e obbedienti a Lui, più siamo uniti tra di noi. Perciò, come cristiani, siamo tutti chiamati a pregare e lavorare insieme per raggiungere passo dopo passo questa meta, che è e rimane opera dello Spirito Santo» (Discorso ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali e di altre religioni, 19 maggio). Un invito già rivolto nella Messa per l’inizio del ministero petrino (18 maggio) e preceduto dalla citazione di un discorso (359, 9) del vescovo di Ippona: «La Chiesa consta di tutti coloro che sono in concordia con i fratelli e che amano il prossimo». Su questa premessa, il Pontefice esprime il «grande desiderio» di «una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato», invitando il «mondo» a guardare «a Cristo», ad avvicinarsi «a Lui», ad accogliere «la sua Parola che illumina e consola», ad ascoltare «la sua proposta di amore per diventare la sua unica famiglia», perché “nell’unico Cristo noi siamo uno”.  E questa è la strada da fare insieme, tra di noi ma anche con le Chiese cristiane sorelle, con coloro che percorrono altri cammini religiosi, con chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per costruire un mondo nuovo in cui regni la pace».

Tale indicazione Leone XIV la offre pure alla Conferenza episcopale italiana (17 giugno), aggiungendo che «è necessario uno slancio rinnovato nell’annuncio e nella trasmissione della fede», e questo significa «porre Gesù Cristo al centro e, sulla strada indicata da Evangelii gaudium, aiutare le persone a vivere una relazione personale con Lui, per scoprire la gioia del Vangelo».

«In un tempo di grande frammentarietà è necessario tornare alle fondamenta della nostra fede, al kerygma», afferma il Papa, per questo «il primo grande impegno che motiva tutti gli altri» è «portare Cristo “nelle vene” dell’umanità, rinnovando e condividendo la missione apostolica», ossia l’annuncio della Buona Novella.

Occorre però «discernere» i modi in cui farla «giungere a tutti», perché servono «azioni pastorali capaci di intercettare chi è più lontano» e «strumenti idonei al rinnovamento della catechesi e dei linguaggi dell’annuncio». Sono un po’ anche i consigli che il vescovo di Ippona dà nei trattati Prima catechesi cristiana e La dottrina cristiana, nei quali si premura di descrivere come interpretare correttamente la Scrittura e in che modo esporla a seconda degli interlocutori o tenendo conto del tipo di uditorio. Agostino nei suoi innumerevoli scritti fa conoscere Cristo come immagine del Padre («Assumendo un corpo si è fatto carne per manifestarsi ai sensi degli uomini», Confessioni XIV, 20), modello per l’uomo, «incapace di vedere Dio a causa dei peccati che lo resero impuro» (La Trinità VII, 3,5); ma anche come verità, scienza e sapienza (cfr XIII, 19,24) e inoltre come mediatore («Il Signore Gesù Cristo non per altro motivo è venuto alla carne... se non per vivificare, salvare, liberare, redimere, illuminare coloro che prima erano nella morte, nell’infermità, nella schiavitù, nella prigionia, nelle tenebre dei peccati», Il castigo e il perdono dei peccati e il battesimo dei bambini I, 26, 39, ed è «la porta per andare al Padre», Commento al Vangelo di Giovanni 47, 3), e poi, ancora, come maestro («Abbiamo dentro di noi il Cristo... Qualunque cosa non riusciate a capire per difetto della vostra intelligenza e della mia parola, rivolgetevi dentro il vostro cuore a colui che insegna a me ciò che dico e distribuisce a voi come crede», Commento al Vangelo di Giovanni 20, 3), ed esempio di umiltà. Proprio l’umiltà di Cristo è l’ultimo pezzo del puzzle della conversione del grande padre della Chiesa, che comprende di potersi elevare a Dio solo aggrappandosi «al mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo»; è infatti imboccando la via dell’umiltà dell’«umile Gesù» che Agostino trova la strada che lo conduce alla Verità (cfr. Confessioni VII, 18,24).

«Ci ha mostrato con l’insegnamento la via dell’umiltà e l’ha percorsa soffrendo per noi», dice l’ipponate di Cristo nel Discorso 23/A, 3, e «Cerchiamo di essere piccoli; richiediamolo e impariamolo dal nostro grande Maestro» nel Discorso 68, 9. L’eco di queste ultime parole è facilmente rintracciabile nell’omelia pronunciata dal Papa nella Messa pro ecclesia del 9 maggio, nella quale rimarca che «impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità» è «sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo».

«Ci ha amati perché anche noi ci amiamo a vicenda. Con l’amarci egli ci ha dato l’aiuto affinché col mutuo amore ci stringiamo fra noi e, legate le membra da un vincolo così soave, siamo corpo di tanto Capo» (Commento al Vangelo di Giovanni 65,2), è la sintesi del vescovo di Ippona. Mentre Leone XIV, nella Messa per il Giubileo delle famiglie, dei nonni e degli anziani (1 giugno), insistendo sull’invito di Cristo ad essere tutti «una sola cosa» — che è il «bene più grande che possa essere desiderato, perché questa unione universale realizza tra le creature l’eterna comunione d’amore in cui si identifica Dio stesso, come Padre che dà la vita, Figlio che la riceve e Spirito che la condivide» — raccomanda di camminare insieme sulle «orme» di Cristo, «umili, decisi, fermi nella fede e aperti a tutti nella carità» (Giubileo dei sacerdoti, 27 giugno). Più precisamente, il Pontefice chiarisce che credere in Gesù Cristo «e seguirlo come suoi discepoli significa lasciarsi trasformare perché anche noi possiamo avere i suoi stessi sentimenti: un cuore che si commuove, uno sguardo che vede e non passa oltre, due mani che soccorrono e leniscono ferite, le spalle forti che si prendono il carico di chi è nel bisogno» (Omelia nella Parrocchia Pontificia di San Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo, 13 luglio).

E allora mettere Cristo al centro, per il Papa, vuol dire «ritornare al proprio cuore», scoprirvi «la legge dell’amore» scritta da Dio. Capire, poi, quanto Gesù «ci ama e si prende cura di noi» è spinta ad «amare allo stesso modo», a diventare «segni del suo amore». Leone XIV, in sintesi, chiede una «rivoluzione dell’amore», «amore che si dona e non possiede, amore che perdona e non pretende, amore che soccorre e non abbandona mai», che spinge a «diventare prossimo» di quanti si incontrano lungo il proprio cammino, come «in Cristo, Dio si è fatto prossimo di ogni uomo e di ogni donna» (Angelus, 13 luglio).