
di Jacopo Mancini
Si racconta con sincerità, senza timore di mostrare le proprie fragilità. Lo fa con disponibilità e disarmo, auspicando che il suo esempio possa aiutare tanti giovani che, come lui in passato, si trovano oggi davanti a situazioni di difficoltà. Matteo Maio è un ragazzo di 25 anni, ma parla con la consapevolezza di chi ha già imparato ad ascoltarsi e guardare in faccia la vita. Particolarmente attivo all’interno della pastorale giovanile della diocesi di Roma, Matteo si racconta in vista del Giubileo dei giovani, che avrà luogo a Roma dal 28 luglio al 3 agosto: un grande incontro internazionale concepito per offrire ai ragazzi un’occasione unica di relazione, preghiera e condivisione della fede, in comunione con il Papa. Il suo è il racconto di un percorso nel quale la fede diventa forza generatrice di rapporti umani, di incontri profondi e veri che aiutano a sconfiggere quella solitudine che attanaglia sempre più giovani.
Matteo ricorda ironicamente come il primo incontro con la pastorale giovanile sia avvenuto a causa di una delusione sentimentale: «Volevo riconquistare una ragazza e ho deciso di dedicarle una canzone. Alla ricerca di uno studio di registrazione, ho contattato don Alfredo Tedesco, direttore della pastorale giovanile della diocesi di Roma, che mi ha indirizzato verso la chiesa di Sant’Angela Merici. Alla fine, accompagnato dal mio amico — e oggi collega — Tommaso, abbiamo fatto tutto tranne che registrare la canzone». Da questa parentesi imprevista emerge tuttavia un’intuizione: dare voce ai giovani attraverso una serie di programmi radiofonici pensati per coinvolgerli sempre più nelle attività ecclesiastiche. «Un’iniziativa che ha fin da subito riscosso un notevole successo — sottolinea Matteo — coinvolgendo anche figure di primo piano della comunità ecclesiale di Roma per creare un vero e proprio ponte intergenerazionale basato sul dialogo e sull’interazione».
Ed è proprio questo intreccio di relazioni sincere a costruire, secondo Matteo, il cuore pulsante del Giubileo dei giovani: «Molti di essi hanno voglia non solo di incontrarsi o stare insieme, ma di vivere in maniera esplicita ciò che è il loro credo: farlo con milioni di persone provenienti da tutto il mondo è un’esperienza davvero unica». In un mondo sempre più atomizzato, «dove si tende a definire l’individuo come singola entità piuttosto che parte di un qualcosa», la solitudine diviene la barriera principale da abbattere. E proprio contro questa barriera, Matteo vede nel Giubileo un’occasione concreta per «fare spazio alla speranza», non come un’idea vaga o declinata al futuro, ma come qualcosa di realmente tangibile, che nasce dallo scambio di abbracci, da mani intrecciate che si riconoscono simili nelle ferite. «È lì — afferma — che comincia la speranza: nei legami veri che permettono ai giovani di riscoprirsi amati, di capire che il mondo non è solo abitabile, ma persino amabile».
L’invito è a non aver paura di mostrarsi fragili, di cercare negli altri l’antidoto a quella solitudine che spesso si fa silenziosa compagna delle nuove generazioni. «Il bisogno di relazioni autentiche, anche se imperfette, ci spinge a specchiarci negli occhi di chi, come noi, ha sofferto, aiutandoci a guarire. Non dobbiamo demonizzare la malinconia, in quanto anche essa ha un posto nella nostra esistenza se condivisa con qualcuno che ci vuole bene».
Il Giubileo dei giovani diviene dunque un vero e proprio faro acceso: non un evento da spettatore, ma un’occasione per riscoprirsi e ricominciare a credere. «Vi vogliamo bene — chiosa Matteo, rivolgendosi idealmente alla sua generazione — e vi aspettiamo a Roma. Soprattutto voi che pensate di essere soli. Qui c’è spazio per tutti».