· Città del Vaticano ·

Ottant’anni fa usciva «La porta del cielo», prodotto del binomio De Sica-Zavattini

Il film delle coincidenze e dei miracoli

 Il film delle coincidenze  e dei miracoli  QUO-169
23 luglio 2025

di Dario E. Viganò

Nel novembre del 1959, Papa Giovanni XXIII fondò la Filmoteca Vaticana. Questo gesto non solo testimoniava la passione di Papa Roncalli per il cinema — un interesse peraltro già espresso durante i suoi anni da patriarca nella città sede della Mostra del Cinema — ma sanciva anche la volontà della Chiesa di estendere la salvaguardia della memoria storica alle produzioni audiovisive. Come recita lo statuto della Filmoteca, ciò avveniva «in conformità alla secolare tradizione della Santa Sede di accogliere i più notevoli documenti di storia e di cultura». Questa iniziativa giungeva a pochi mesi da un’altra decisione, questa davvero epocale, presa da Roncalli: la convocazione del Concilio vaticano II, annunciata inaspettatamente da Giovanni XXIII nel gennaio dello stesso anno nella sagrestia della basilica di San Paolo fuori le Mura, nel giorno in cui si celebrava la conversione paolina. Seguendo un curioso filo di coincidenze, è interessante notare come le navate della basilica ostiense furono teatro, quindici anni prima, di quello che possiamo considerare il più significativo atto di apertura della Santa Sede verso l’arte cinematografica fino allora mai espresso, almeno per il suo valore simbolico. Nel maggio del 1944, nei giorni più difficili dell’occupazione di Roma da parte delle forze hitleriane, Pio XII, con la collaborazione dell’allora Sostituto alla Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, concesse eccezionalmente la basilica di San Paolo come straordinario set cinematografico per le riprese conclusive de La porta del cielo, film diretto da Vittorio De Sica, sceneggiato da Cesare Zavattini e prodotto dalla Orbis, casa di produzione nata in quei mesi su iniziativa dell’Azione Cattolica Italiana.

Un film del binomio
De Sica-Zavattini

Nell’anno in cui si celebrano sia i sessant’anni dalla conclusione del Concilio, che proprio Montini portò a felice compimento, sia gli ottant’anni dall’uscita di questa eccezionale pellicola, tale intreccio di coincidenze assume ancor più pregnanza simbolica visto che in questi giorni il film è tornato finalmente accessibile al grande pubblico con l’uscita del dvd prodotto dall’editore Mustang Entertainment grazie al coordinamento della Fondazione Memorie Audiovisive del Cattolicesimo e dopo un articolato lavoro di restauro e valorizzazione promosso nel 2022 dal Centro di ricerca CAST dell’Università Telematica Internazionale Uninettuno. Un evento culturale di grande rilevanza, che restituisce visibilità a un film nato tra le macerie del Secondo conflitto mondiale, testimone di una stagione drammatica ma anche ricca di speranza per l’Italia e per il cinema. Si tratta di un film che è senza dubbio oggi tra i meno conosciuti del duo De Sica-Zavattini, formidabile binomio del neorealismo italiano. La diretta partecipazione della Santa Sede alla produzione e le condizioni estreme in cui il film fu girato durante l’occupazione di Roma tra bombardamenti e rastrellamenti, unite alla sua sostanziale invisibilità dopo l’uscita sugli schermi nell’immediato dopoguerra, hanno contribuito col tempo ad ammantare La porta del cielo di una giustificata aura di leggenda che è andata al di là degli ambienti cinefili.

L’intreccio tra realtà e finzione

Probabilmente proprio a causa della sua scarsa visibilità, il film è stato generalmente considerato finora un’opera minore nella produzione desichiana; tuttavia, per la sua capacità di anticipare la grande stagione neorealista, esso appare invece degno delle opere che lo precedono e lo seguono, come I bambini ci guardano (1943) e Sciuscià (1946), acclamate in tutto il mondo. Non è secondario, in tal senso, che l’intreccio narrativo del film e la sua genesi produttiva si richiamino, per certi versi, a vicenda: il viaggio di un gruppo di malati su un “treno bianco” alla ricerca di un miracolo presso il santuario di Loreto, fulcro del film, è quasi una metafora di sentimenti e situazioni vissute dalla troupe durante le riprese in clandestinità, nel cuore di una Roma in balia delle forze del Terzo Reich. La storia raccontata e la storia vissuta si specchiano così nello sguardo avvolgente e caloroso di De Sica, ma anche nell’arte zavattiniana di «pedinare» la realtà, mescolando con maestria tocchi umoristici e visioni ciniche.

Un’inaugurazione speciale

«La porta del cielo narra di miracoli. Il primo miracolo — mi sembra — è lo stesso film, portato a termine dopo sette mesi di lavorazione attraverso incredibili difficoltà. Non si legge il diario di produzione di questo film senza restare sbalorditi per la serie di incidenti drammatici che ne rallentarono il corso». Così nel dicembre 1944 Ennio Flaiano commentava sul quotidiano «La Domenica» la speciale anteprima del film, organizzata dall’Azione Cattolica Italiana, presso il Planetario di Roma. La singolare composizione del pubblico in sala quella sera aggiungeva ulteriori elementi di straordinarietà a questa iniziativa, allestita a ridosso del primo Natale della capitale dopo la sua liberazione dal nazifascismo. Accanto al regista De Sica e allo sceneggiatore Zavattini, spiccavano le attrici Maria Mercader e Marina Berti, affiancate dagli interpreti maschili: Roldano Lupi, Massimo Girotti, Carlo Ninchi. Questo gruppo, tra le massime espressioni dello star system italiano dell’epoca, contrastava con l’importante schiera di alte figure ecclesiastiche, tra cui, oltre a Montini, il Nunzio in Italia Francesco Borgongini Duca, e il presidente della commissione cardinalizia dell’Azione Cattolica Italiana Luigi Lavitrano, tutti personaggi poco avvezzi alla mondanità degli ambienti cinematografici. A fare gli onori di casa era il presidente del Centro Cattolico Cinematografico, Luigi Gedda, il grande ideatore dell’intera operazione.

L’incontro tra mondi apparentemente inconciliabili

Il diretto coinvolgimento della Chiesa cattolica e delle sue più alte gerarchie nella produzione conferisce certamente un interesse tutto particolare a questo film, anche perché esso costituì, di fatto, la prima avventura produttiva della Santa Sede nell’ambito del cinema d’intrattenimento non documentario. Un fatto che generò una convergenza strumentale tra due mondi apparentemente inconciliabili che nel cinema trovarono una insolita via di dialogo e di salvezza. «Sto ultimando la sceneggiatura di quel film su Loreto — scriveva Zavattini all’editore Valentino Bompiani il giorno di Natale del 1943 — Ci lavoro con molto scrupolo; anche De Sica l’ha presa profondamente sul serio, quindi crediamo che, pur essendo a rime obbligate e per tante ragioni obbligatissime, verrà fuori una cosa buona». La Chiesa militante e perfettamente organizzata di Luigi Gedda incontrava qui in modo singolare l’evangelismo laico di quello che sarebbe diventato il più acuto cantore cinematografico dei poveri matti e innocenti.

La basilica di San Paolo e il ruolo di Montini

Questo disegno trovò in Montini uno sponsor convinto in Vaticano, al punto che fu proprio il futuro Paolo VI a proporre la concessione della basilica di San Paolo Fuori le mura quale eccezionale set per la ripresa delle ultime sequenze del film. Quella stessa basilica che, godendo dello status di extraterritorialità, durante la guerra e l’occupazione tedesca aveva funzionato da rifugio per un numero imprecisato di persone ricercate (ebrei, renitenti alla leva, rifugiati politici). Mai nessuno avrebbe immaginato però che nelle settimane più calde che precedettero la liberazione del 4 giugno 1944 uno dei luoghi di culto più importanti della Roma papale avrebbe spalancato le porte al cinema, divenendo un rifugio sicuro per la troupe, gli attori, ma anche per lo stesso Vittorio De Sica. «Quel film mi salvò la vita — raccontò il regista nel 1954 — Difatti era il tempo dell’occupazione tedesca di Roma, del cinema italiano non restava più niente, i più si tenevano nascosti, tappati in casa, altri venivano trasferiti al nord, a Venezia o a Praga. Un giorno mi manda a chiamare Mezzasoma, al Ministero a via Veneto. Ci vado piuttosto spaventato, perché so che cosa mi chiederà. E infatti si tratta di andare a dirigere la cinematografia repubblicana a Venezia. Gli dico: “Non posso, sto facendo un film per il Vaticano”».