Srebrenica - Una disfatta della civiltà
Una ferita aperta

di Valerio Palombaro
Srebrenica è una ferita ancora aperta nel cuore dell’Europa. A 30 anni di distanza dall’eccidio di più di 8.300 musulmani bosniaci da parte delle milizie serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić — che già nel 2007 la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto come un genocidio — molte famiglie ancora aspettano di seppellire i propri cari. I resti di sette persone trucidate tra l’11 luglio e il 18 luglio 1995 sono state seppellite oggi al memoriale di Potočari. Si vanno ad aggiungere alle oltre 7.000 già identificate e adeguatamente sepolte. Circa altre 1.000, però, risultano ancora disperse: la stampa locale ha fatto sapere che i resti di 47 corpi sono stati esumati, ma le loro famiglie non hanno acconsentito alla sepoltura poiché i ritrovamenti consistono solo in piccole schegge di ossa.
Il dolore dei familiari e delle “madri di Srebrenica”, che ancora piangono le tante giovani vittime, è solo una parte del passato che non passa nei villaggi della valle della Drina. Il massacro di Srebrenica ha segnato uno dei capitoli più duri delle guerre che lungo tutto il decennio degli anni Novanta hanno insanguinato i Balcani dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia. I combattimenti in territorio bosniaco iniziarono nel 1992, quando Sarajevo dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia a seguito di un referendum. I serbi della Bosnia, che avevano boicottato il referendum, iniziarono una guerra contro il governo bosniaco con il sostegno di quello della Serbia di Slobodan Milošević. L’obiettivo: ottenere l’annessione delle aree a maggioranza serbo-bosniaca alla “grande Serbia”. Le numerose “enclave” a maggioranza musulmana furono così prese di mira dai serbo-bosniaci, in un’operazione di pulizia etnica con villaggi distrutti, massacri e espulsioni di massa.
Srebrenica e i limitrofi villaggi della valle della Drina erano uno dei principali ostacoli al progetto di annettere il territorio alla Serbia. Nel luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco invase l’area precedentemente dichiarata “zona sicura” dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. I serbo-bosniaci uccisero brutalmente migliaia di uomini e ragazzi, espellendo 20.000 persone dalla città. Una unità piccola e poco armata di Caschi blu olandesi sotto la bandiera delle Nazioni Unite non fu in grado di resistere alle forze serbo-bosniache. Tanto che nel 2017 la Corte d’appello olandese definì lo Stato «parzialmente responsabile» della morte di circa 300 musulmani uccisi a Srebrenica perché il suo esercito costrinse i bosniaci, che cercavano riparo nel loro compound, a lasciare la base, «privandoli della possibilità di sopravvivere», si legge nella sentenza, sebbene «quegli uomini sarebbero comunque stati uccisi più tardi anche se fossero rimasti nel campo». Quattro anni più tardi, però, il governo olandese ha compensato con 5.000 euro i veterani del battaglione Dutchbat III per «le circostanze eccezionali in cui i militari hanno dovuto operare 25 anni fa». Anche perché, secondo questa ricostruzione, le richieste di intervento da parte del comando olandese si scontrarono con l’indecisione politica dell’Onu e la lentezza dell’apparato internazionale.
Oggi i Balcani rimangono così in un “limbo”, sospesi tra passato da “polveriera”, presente incerto e speranza del futuro europeo. Tra i Paesi dell’ex Jugoslavia solo Slovenia e Croazia sono riusciti a entrare a far parte dell’Ue, mentre questa aspirazione incompiuta getta sugli altri un alone di indefinitezza e instabilità latente. In particolare sulla Bosnia ed Erzegovina, uscita dalla terribile guerra tra il 1992 ed il 1995 con una complessa architettura istituzionale sancita dagli accordi di Dayton che la vedono divisa in due entità: quella serba, la Republica Srpska (49 per cento del territorio), e quella musulmano-croata (51 per cento). Il sistema di Dayton, che punta a equilibrare i rapporti tra i tre popoli costitutivi del Paese (circa il 50 per cento della popolazione bosniaca è musulmano, il 30 per cento serbo e il 15 per cento croato), ha ibernato la Bosnia ed Erzegovina al 1995. Il sogno di uno Stato democratico e funzionante è schiacciato dal peso dei nazionalismi e dei fantasmi del passato.
La retorica secessionista oggi in voga nella Republica Srpska fa il paio con una riconciliazione nazionale incompleta. Banja Luka e Sarajevo (il capoluogo della Republica Srpska e la capitale bosniaca) hanno visioni opposte sulla risoluzione, promossa da Germania e Rwanda, con cui lo scorso anno l’Assemblea generale dell’Onu ha istituito l’11 luglio come Giornata internazionale di commemorazione del genocidio di Srebrenica, condannando al contempo qualsiasi negazione di questo evento storico. Il negazionismo, invece, è ancora molto diffuso nella leadership serbo-bosniaca, anche se va riconosciuto che a Belgrado nel corso degli anni sono stati fatti timidi passi per superare il passato. Come nel 2015, quando l’allora primo ministro serbo Aleksandar Vučić visitò il memoriale di Potočari in occasione del ventennale del massacro di Srebrenica. In pochi minuti la visita fece toccare con mano la labilità del confine tra passato e presente nei Balcani: dopo aver incontrato alcune rappresentanti dell’associazione delle “madri di Srebrenica”, Vučić fu costretto a lasciare il memoriale tra lanci di sassi e bottiglie mentre alcune persone issarono uno striscione con la scritta “Per ogni serbo, 100 musulmani uccisi”, frase che usava pronunciare l’attuale presidente della Serbia quando era ministro del governo Milošević ai tempi della guerra. E negli ultimi dieci anni la situazione non è molto cambiata.
Sembra ancora un miraggio la frase pronunciata da San Giovanni Paolo II quando nell’aprile 1997 riuscì a effettuare il tanto desiderato viaggio a Sarajevo: «Come in un mosaico, è necessario che a ciascuna componente di questa regione venga garantita la salvaguardia della propria identità politica, nazionale, culturale e religiosa. La diversità è ricchezza, quando diviene complementarietà di sforzi al servizio della pace, per l’edificazione di una Bosnia ed Erzegovina veramente democratica». La speranza è che le giovani generazioni dei Balcani, che non hanno vissuto direttamente il periodo buio delle guerre, pur mantenendo vivo il ricordo di Srebrenica sappiano aprire le porte alla riconciliazione per superare definitivamente quello che Papa Wojtyła già pochi giorni dopo il massacro definì «uno dei capitoli più tristi della storia dell’Europa».
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