Hic sunt leones

di Giulio Albanese
Q ualsiasi politica protesa all’affermazione dello sviluppo sostenibile non può prescindere dalla realizzazione di una rete infrastrutturale che contribuisca, attraverso l’uso di tecnologie e processi industriali rispettosi dell’ambiente, alla crescita economica e al benessere umano. È questo il motivo per cui il nono Obiettivo di sviluppo sostenibile (Sdg) delle Nazioni Unite mira a costruire infrastrutture resilienti, promuovere un’industrializzazione inclusiva e sostenibile e favorire l’innovazione per sostenere la crescita economica e il benessere umano. Questo obiettivo è fondamentale per lo sviluppo sostenibile, poiché gli investimenti su questo versante possono contribuire a creare posti di lavoro, aumentare la produttività e promuovere la prosperità a lungo termine. A questo proposito è illuminante il dossier dell’Africa finance corporation, intitolato “State of Africa’s infrastructure report 2024”, sullo stato di sviluppo complessivo delle infrastrutture nel continente africano.
Si tratta di un’indagine accurata che mette in evidenza l’importanza cruciale di questo settore per la trasformazione economica del continente, denunciando però al contempo quello che gli estensori del rapporto definiscono un sostegno insufficiente da parte sia del settore pubblico che di quello privato. Stiamo parlando di investimenti che non possono essere disattesi se si considera la loro importanza per la costruzione di una rete di infrastrutture fisiche, che comprenda sia infrastrutture economiche (come porti, ferrovie, strade e aeroporti) sia infrastrutture sociali (come scuole e ospedali). Com’è noto, in economia, lo stock di capitale (o capitale fisico) si riferisce al valore totale dei beni capitali, come macchinari, attrezzature, edifici e infrastrutture, che un’economia possiede in un determinato momento. Questi beni sono utilizzati per produrre altri beni e servizi e quindi contribuiscono alla crescita economica di un qualsivoglia Paese.
Nonostante il legame dimostrato tra lo stock di capitale e il miglioramento della produttività e del tenore di vita, il rapporto mostra come lo stock di capitale totale dell’Africa abbia registrato una crescita minima negli ultimi trent’anni: in media solo dell’1-2 per cento negli anni ‘90, salendo poi al 2-4 per cento dall’inizio del millennio, in netto contrasto con la crescita costante del 10 per cento registrata dalla Cina nella stessa area e negli stessi periodi. Sebbene il valore reale del capitale accumulato in Africa sia gradualmente aumentato, esso rimane significativamente basso, attestandosi a soli 10,5 miliardi di dollari, rispetto ai quasi 64 miliardi di dollari della Cina nel 2019. Nel 1960, il capitale totale della Cina era inferiore di 0,47 volte rispetto a quello dell’Africa; tuttavia, lo ha superato già nel biennio 1996-1997, per poi crescere rapidamente, in linea con l’accelerazione economica del Paese a partire dai primi anni 2000. Nel 2018, il capitale della Cina era 6,1 volte superiore a quello dell’Africa. La Banca africana di sviluppo (AfDb) stima che il divario infrastrutturale del continente ammonti a 107,5 miliardi di dollari all’anno, mentre la Banca mondiale ritiene che i Paesi africani debbano investire il 7,1 per cento del loro Pil in infrastrutture adeguate per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile sopra citati. Queste previsioni, tuttavia, risalgono a un periodo precedente al Covid e ora probabilmente sottostimano la portata del problema. Dal rapporto si evince che, nonostante il massiccio deficit complessivo nel fabbisogno infrastrutturale del continente, ci sono comunque anche alcuni progressi. Ad esempio, tra il 2010 e il 2022 sono stati investiti 13 miliardi di dollari nei porti africani, che hanno favorito lo sviluppo di nuovi hub regionali come Tanger med in Marocco e una significativa espansione della capacità di movimentazione merci in tutto il continente, con un flusso totale di container in Africa che è passato da 24,5 milioni di Teu (unità di misura standard utilizzata nel trasporto marittimo per indicare la capacità di carico delle navi portacontainer) nel 2011 a 35,8 milioni di Teu nel 2021.
Tuttavia, a parte i crescenti investimenti nei porti africani, il resto delle infrastrutture logistiche del continente presenta ancora notevoli criticità. Secondo il rapporto, la rete stradale asfaltata totale dell’Africa si estende per soli 680.000 chilometri, una lunghezza sei volte inferiore a quella dell’India. Le ferrovie, che si estendono per 87.000 chilometri, soffrono di investimenti insufficienti, scarso utilizzo e disparità tecnologiche, in particolare nell’Africa subsahariana, dove ben 13 Paesi non dispongono di una rete ferroviaria operativa. Il settore dell’aviazione, pur mostrando un potenziale di crescita, è ostacolato da costi elevati e problemi di sicurezza. La mancanza di coordinamento tra questi segmenti, unita all’inefficienza dei corridoi logistici, crea colli di bottiglia che rendono il trasporto delle merci attraverso il continente lento, costoso e inefficiente.
Un’altra questione cruciale, stando al rapporto, è quella energetica. Il paradosso è evidente: com’è possibile che un continente così ricco di materie prime debba ancora dipendere fortemente da fonti tradizionali e inquinanti come il carbone e la legna da ardere, contribuendo per meno del 6 per cento al consumo energetico globale? Sebbene l’Africa abbia aggiunto oltre 66 gw di capacità di generazione di energia tra il 2012 e il 2022, questo aumento è insufficiente a soddisfare il suo fabbisogno energetico. La capacità di generazione energetica totale del continente è ancora paragonabile a quella della Francia, un singolo Paese con una popolazione molto più ridotta se rapportata con quella africana. Inoltre, è bene rilevare che l’Africa ha sfruttato solo in minima parte le sue vaste risorse di energia rinnovabile, utilizzando solo una piccola frazione del suo potenziale solare, eolico, geotermico e idroelettrico. A parte Paesi come Marocco, Egitto e Sud Africa dove sono concentrati in maggior parte gli investimenti energetici, le nazioni africane a basso reddito sono tuttora alle prese con un grave deficit energetico.
Per quanto concerne le infrastrutture digitali africane, sebbene siano stati registrati investimenti significativi, soprattutto nelle infrastrutture di primo miglio, come i cavi sottomarini, che hanno rafforzato la larghezza di banda internet internazionale, c’è ancora molto da fare. L’infrastruttura del cosiddetto “miglio intermedio” dell’Africa, che comprende l’espansione della fibra terrestre e la creazione di corridoi digitali integrati, resta carente rispetto alle esigenze della sua popolazione in crescita. Sebbene in Africa oltre 400 milioni di persone vivano attualmente entro 10 chilometri da una rete in fibra ottica, la maggior parte è concentrata nelle aree urbane, lasciando le regioni rurali con un accesso limitato. Questa disparità contribuisce a un crescente “divario di utilizzo”, dove un numero crescente di africani è coperto da reti a banda larga ma non le utilizza. Nel 2022, 680 milioni di africani erano raggiungibili dalla banda larga ma non la utilizzavano, principalmente a causa di problemi di accessibilità economica e della mancanza di infrastrutture nelle loro comunità.
Nonostante l’Agenda 2063 dell’Unione africana (Ua), che mira alla trasformazione economica attraverso l’industrializzazione, le politiche manifatturiere africane hanno prodotto risultati contrastanti. La quota del settore manifatturiero nel Pil del continente è rimasta stabile, attestandosi intorno al 13 per cento sin dagli anni ’90. Ma non è tutto: il 70 per cento delle attività manifatturiere africane è concentrato in soli cinque Paesi: Egitto, Nigeria, Sud Africa, Algeria e Marocco. Gli sforzi industriali al di fuori di questi Paesi sono generalmente a bassa tecnologia e bassa produttività, contribuendo alla stagnazione e, in alcuni casi, paradossalmente, alla deindustrializzazione.
La posta in gioco, guardando al futuro, è molto alta. Le sfide sul tappeto sono molte ma è chiaro che l’Africa riuscirà a risollevarsi economicamente solo nella misura in cui i governi non saranno più ostaggio della cosiddetta “trappola della liquidità” che si verifica quando gli investitori stranieri, condizionati da presunte aspettative future negative e da tassi bassi, decidono di trattenere il capitale anziché investirlo. A ciò si aggiunge il problema dei finanziamenti erogati sotto forma di prestiti a lungo termine anziché di sovvenzioni, una pratica che finisce per acuire non solo la dipendenza finanziaria, ma una vera e propria condizione di sudditanza. Sarà la storia a giudicare.