· Città del Vaticano ·

A colloquio con don Karam Shahmasha sacerdote originario della piana di Ninive

L’impegno della Chiesa
per il futuro dell’Iraq

An Iraqi Chaldean Catholic priest leads a Palm Sunday service march outside the Saint Elijah church ...
09 luglio 2025

di Guglielmo Gallone

Israele, Gaza, Palestina, Siria, Iran, Cisgiordania: il Medio Oriente è più che mai tornato a dominare lo scacchiere internazionale. Eppure, c’è un Paese di cui si parla poco ma che è sempre più al centro degli equilibri mediorientali: l’Iraq. Strategico per la sua posizione di crocevia tra i Paesi del Golfo, il Mar Mediterraneo e la Turchia, in Iraq il 3 gennaio 2020 furono uccisi il generale Qasem Soleimani, al comando della brigata Qods dei pasdaran, e Abu Mahdi al-Muhandis, al tempo capo della coalizione di milizie sciite irachene filo-iraniane. Poi, lo scorso 11 giugno, un giorno prima dell’attacco israeliano all’Iran, gli Stati Uniti hanno ordinato l’evacuazione del personale non essenziale dalla loro ambasciata a Baghdad, capitale dell’Iraq, mentre per il personale diplomatico in Bahrein e Kuwait era solo stata autorizzata la partenza volontaria.

Con riferimento proprio all’Iraq e all’Afghanistan furono inoltre utilizzati per la prima volta nel ventunesimo secolo i concetti di “guerra preventiva” e “regime change”, nuovamente attuali quando si parla di Medio Oriente ma che, tanto in Afghanistan quanto in Iraq, furono capaci solo di peggiorare una situazione già precaria. Ancora oggi in Iraq si contano oltre un milione di sfollati interni, tre milioni di persone che richiedono assistenza umanitaria e 280.000 rifugiati provenienti da altri Paesi. Di questa condizione soffrono in particolare le minoranze presenti nel Paese, fra cui si contano almeno 250.000 cristiani (nel 2003 erano oltre un milione e 300.000). «La situazione è indubbiamente migliorata rispetto al 2006-2007 o al 2014 – esordisce ai media vaticani don Karam Shahmasha, sacerdote iracheno originario della piana di Ninive – oggi non c’è più alcuna persecuzione e anzi la libertà in generale c’è. Tuttavia, c’è un alto livello di discriminazione». Padre Karam fa riferimento ai «molti problemi interni, legati soprattutto alle minoranze e ai diritti dei cristiani. Ad esempio, le nostre possibilità sono limitate, specie quando si parla di lavoro. Le discriminazioni in questo senso sono moltissime e dipendono dal partito, dalla religione o dall’etnia cui si appartiene».

Padre Karam conosce bene questa condizione perché proviene da un’area dell’Iraq, la piana di Ninive, non lontana dal confine tra Iraq e Siria, dove nel 2014 120.000 cristiani furono perseguitati e costretti a fuggire a seguito della presa di Mosul da parte dell’Is. «Abbiamo perso tantissimi fedeli – ci racconta – alcuni furono minacciati, altri lasciarono il Paese. Oltre il 60 per cento della popolazione di ogni villaggio cristiano ha trovato rifugio all’estero e ancora adesso rimane lì. La grande presenza cristiana in quest’area oggi è stata fortemente ridotta. Noi abbiamo perso tutto. Eppure, supportati da realtà come Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs), abbiamo deciso di restare. E non abbiamo perso la cosa più importante: la nostra fede. E grazie a Dio siamo rimasti uniti per difenderla».

Le difficoltà, ovviamente, non mancano e quando chiediamo a padre Karam di menzionarci quelle più complesse, ci rassicura evidenziando anzitutto che «grazie a Dio, oggi le nostre Chiese sono vive: tanti fedeli partecipano alla messa, ci sono poi gesti quotidiani di fraternità, riunioni giovanili, attività. Cito ad esempio l’Ankawa Youth Meeting, un forum annuale dedicato alle nuove generazioni che negli scorsi anni ha contato oltre 1500 giovani. Quest’anno, dopo gli incontri preparatori settimanali, ci aspettiamo 750 ragazzi, con un programma centrato sulla vocazione che partirà il 9 luglio. Cerchiamo in tutti i modi di tenere i ragazzi vicini alla Chiesa, anche se è difficile. Il nostro problema non è tanto l’ateismo come in Europa, bensì difendere la nostra identità davanti a religioni diverse. Nelle scuole, nelle università, spesso siamo gli unici cristiani e ci viene chiesto: “Perché sei ancora cristiano?”. Dobbiamo prepararci a rispondere, anche con il sangue, come avvenne nel 2014, e ora con la testimonianza e la fedeltà».

In effetti, Matthias Kopp, esperto di Medio Oriente, portavoce della Conferenza episcopale tedesca e consultore del Dicastero per la Comunicazione, nel suo libro “Il patrimonio cristiano dell’Iraq - sopravvivere nella Mesopotamia” afferma proprio che senza cristianesimo l’Iraq è impensabile. «È vero – riprende Shahmasha – il cristianesimo in Iraq non è solo una religione tra le altre. Anzitutto, in origine questo Paese è stato una roccaforte del cristianesimo. Qui passarono gli apostoli Tommaso e Taddeo, si sviluppò fin dai primi secoli la Chiesa d’Oriente, fiorirono comunità cristiane tra le più antiche del mondo e nacquero santi e vescovi. Oggi gli altri ci dicono: “Voi siete diversi”, perché vedono in noi fiducia, pace, valori. Dove ci sono i cristiani, c’è la pace. Un Iraq senza cristiani è un Iraq che ha perso le sue fondamenta. La storia lo dimostra: abbiamo tradotto la filosofia, la teologia, la scienza dal greco al siriaco, poi in arabo, portandola dunque di nuovo in Europa. Siamo stati un ponte per la cultura e per la fede. La nostra presenza è essenziale, non è solo di colore, ma di profondità». In questo senso, il sacerdote iracheno ricorda ai media vaticani come «tra le altre cose, lottiamo per i diritti umani. Anni fa, quando si parlava di autorizzare il matrimonio con bambine di solo otto anni all’interno della costituzione irachena, i cristiani furono i primi a opporsi. Anche se non siamo tanti nel parlamento, la Chiesa fa sentire la sua voce, difende i valori umani per tutti».

“Ricostruire e ricominciare” era stato l’appello lanciato da Papa Francesco quando, nel marzo 2021, durante il viaggio apostolico in Iraq visitò quei luoghi, arrivando anche nella chiesa dell’Immacolata concezione di Qaraqosh, simbolo della persecuzione contro i cristiani: a distanza di quattro anni, nel pieno dell’anno giubilare dedicato alla speranza e agli inizi del pontificato di Leone XIV, don Karam Shahmasha tiene a rimarcare che «la nostra Chiesa è viva. Lavoriamo per portare luce e speranza. Oltre agli incontri giovanili, un esempio importante è l’Università Cattolica di Erbil. Dopo la distruzione del 2014, la Chiesa non ha solo dato rifugio e cibo ai profughi, ma ha costruito scuole e università. Il 30 settembre celebreremo il decimo anniversario dell’università pensata e nata, anche grazie all’aiuto della Conferenza episcopale italiana, per le varie minoranze. Cerchiamo in ogni modo di sostenere i nostri giovani: sono il futuro della Chiesa. E, con questo auspicio, andiamo avanti».