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Simul currebant - Nel mondo dello sport
La rinascita di Fabrizio Maiello passa attraverso i calci a un pallone

Il «Maradona delle carceri»
che stava per rapire Zola

 Il «Maradona delle carceri»  QUO-155
07 luglio 2025

di Claudio Bottan

«Aspetta un attimo che spengo questo coso altrimenti non ti sento». Il “coso” è un soffiatore, strumento che Fabrizio Maiello utilizza durante le sue giornate di lavoro come giardiniere da quando è iniziata la sua seconda vita, o forse la terza.

Destro, sinistro, corsa e fantasia, ambizione e autostima. «Sei un grande, ti verremo a vedere a San Siro, mi ripetevano alcuni di quei compagni che spesso finivano dietro le sbarre. Invece è finita che sono andato io a San Vittore da loro».

Aveva 17 anni e, di fronte alle sliding doors, ha imboccato l’uscita sbagliata quando è arrivato quel calcio al ginocchio che gli ha stroncato la promettente carriera con la squadra primavera del Monza calcio.

«Lì si è spenta la luce. I medici mi dissero che non potevo tornare in campo». Alla scuola preferì l’adrenalina della criminalità, che si appropriò della sua testa. «Mi volevo distruggere e mi sono unito a quelle compagnie da cui il pallone mi aveva tenuto sempre distante» ricorda Fabrizio.

«Sono cambiato, proprio io che non avevo mai fumato né bevuto, che andavo a messa tutte le domeniche con mia madre — ricorda — all’improvviso sono diventato tutto quello da cui stavo alla larga, mi sono perso... Provavo tanta rabbia, solo rabbia, volevo spaccare il mondo, fare male a me stesso e agli altri...».

Così arrivano la droga, le rapine e poi, inevitabilmente, il carcere. Fabrizio entra ed esce da San Vittore, finché non sprofonda ancora più giù, nel girone infernale del manicomio criminale: 24 anni tra carceri e ospedali psichiatrici giudiziari.

Con l’ultima condanna finisce all’Opg di Reggio Emilia, uno di quei «carceri per matti delinquenti» che formalmente l’Italia ha chiuso nel 2015 pur senza aver programmato un’alternativa reale, tant’è che le persone con disturbi psichiatrici popolano le sezioni degli istituti di pena in attesa di essere assegnate a un luogo di cura.

«Legati ai letti, venivamo imboccati per mangiare e bere. Non ci era permesso di alzarci neanche per andare in bagno, restavamo per dei giorni sdraiati sui nostri bisogni. Nudi, a fissare il soffitto e a contare le ore» è il ricordo di Fabrizio. Durante un permesso premio, nel 1994, si diede alla latitanza e pianificò il sequestro lampo della stella del Parma e della nazionale italiana, Gianfranco Zola. Ma si fermò un attimo prima, «per il sorriso di Zola che mi disarmò» confida. E a Zola, trent’anni dopo, ha voluto personalmente chiedere perdono.

Poi improvvisamente una sfera di cuoio ricompare nella sua vita. «La direttrice dell’Opg, Valeria Calevro, mi concede il permesso di allenarmi in occasione della gara podistica Vivicittà, organizzata dalla Uisp (Unione italiana sport per tutti). Non volevo correre, non mi era mai interessato; quindi, decido di seguire il percorso palleggiando. Mi danno un pallone e, nei 24 passi del cortile, inizio a stabilire i primi record. Erano anni che non toccavo una palla».

Ma la svolta definitiva nel suo cammino di redenzione avviene grazie a Giovanni Marione, un altro internato finito lì perché, durante una discussione per una sigaretta, aveva spinto un anziano che, cadendo, era morto. «Giovanni non aveva coscienza di cosa avesse fatto» dice Maiello. «Non sapeva neanche dove si trovasse. Stava male, era stato messo lì a morire. Puzzava, faceva i bisogni addosso e nessuno lo puliva, i detenuti invece di aiutarlo gli facevano i dispetti. Decisi di prendermene cura, notte e giorno. Lui continuava a vivere e io ogni anno battevo il record di palleggi. Sono rinato così». Prendersi cura della fragilità di Giovanni ha permesso a Fabrizio di curare sé stesso, di dare un senso alla sofferenza.

«Dedicarmi a Giovanni è stata la mia partita migliore, ho trovato un angelo che oggi mi protegge da lassù» racconta Fabrizio che oggi è un uomo libero. Accanto a lui c’è Daniela, l’infermiera dell’Opg che gli regalò un paio di scarpe nuove per poter continuare a palleggiare cercando di conquistare nuovi record.

Intanto il “Maradona delle carceri”, accolto in una squadra di sacerdoti, progetta una nuova impresa: «Vorrei battere il record di palleggi lungo la ripida salita che porta alla basilica di Superga, a Torino, un luogo di morte per lo sport ma di speranza per quanti credono nella forza del bene».