· Città del Vaticano ·

L’impoverimento della popolazione palestinese ha raggiunto livelli record

Non solo con le bombe
si uccide un popolo

Palestinian Bedouins flee their homes, as settler violence surges, near Jericho in the ...
05 luglio 2025

di Roberto Cetera

C’è una guerra ulteriore a quella dei razzi, dei droni e delle bombe che si combatte quotidianamente in Palestina ed è quella fondata sul progressivo impoverimento della popolazione palestinese. Se Gaza praticamente non esiste più e il 90 per cento della sua popolazione è stata costretta a una migrazione interna forzata, in tutta la Striscia ogni attività economica è praticamente scomparsa. La lotta quotidiana oggi nella Striscia di Gaza è per la ricerca di un tozzo di pane. Anche la situazione in Cisgiordania è parimenti drammatica per la diffusa mancanza di soldi con cui acquistare cibo e generi di prima necessità. L’Organizzazione internazionale del lavoro (l’Agenzia specializzata delle Nazioni Unite sui temi del lavoro e della politica sociale) ha diffuso nei giorni scorsi un rapporto che, nell’oggettività dei dati riferiti, mostra tutta la drammaticità della situazione attuale. Dopo il 7 ottobre 2023 tutti i permessi di lavoro per l’ingresso in Israele, con le sole eccezioni di personale sanitario e insegnanti, sono stati cancellati, e il tasso di disoccupazione nella sola West Bank è salito al 35 per cento della popolazione attiva.

Già da anni Israele perseguiva una politica di sostituzione del lavoro palestinese in Israele con quello degli immigrati provenienti per lo più dal sud-est asiatico. Adesso, con le restrizioni imposte dopo il 7 ottobre, è diventato praticamente impossibile varcare il muro di separazione per lavorare in Israele. Edilizia e agricoltura i settori dove il lavoro palestinese transfrontaliero era particolarmente diffuso. Gli stessi imprenditori israeliani hanno lamentato le conseguenze che il divieto di transito dei lavoratori palestinese ha procurato alle loro aziende: blocco dei cantieri per mesi e difficoltà a completare i raccolti stagionali di prodotti agricoli. Dei 155.000 posti di lavoro persi in Palestina dal 7 ottobre 2023, circa 140.000 sono quelli transfrontalieri in Israele. Il totale del monte salari andato perso ammonta a circa 3 miliardi di dollari. Il prodotto interno lordo nei territori occupati sarebbe sceso nell’ultimo anno del 27 per cento arrivando ai livelli di sedici anni fa. In Palestina, dove è in circolazione la moneta israeliana, lo shekel, la spirale inflattiva conseguente alla guerra ha contribuito all’impoverimento diffuso. Le previsioni per l’anno in corso sono, nella migliore delle ipotesi, di stagnazione, ma se la guerra a Gaza dovesse continuare è ipotizzabile un’ulteriore contrazione del pil del 5 per cento.

Il triste bilancio del 2024 ha visto in Cisgiordania ben 503 palestinesi uccisi e 3.147 feriti. Numeri che, di fronte alla carneficina di Gaza, sono passati in secondo piano. La spesa pubblica gestita dall’Autorità palestinese (Anp) di Ramallah non può certo sospingere investimenti produttivi che creino nuovi posti di lavoro perché le sue entrate fiscali si sono ridotte enormemente, sia perché il calo drammatico del pil ha comportato la riduzione del gettito fiscale, sia perché Israele ha unilateralmente ridotto notevolmente la restituzione del gettito fiscale all’Autorità nazionale palestinese. Israele ha giustificato i tagli con l’intenzione di non voler pagare più gli stipendi agli impiegati pubblici di Gaza e tantomeno le compensazioni dovute ai familiari dei “martiri” uccisi in guerra. Il risultato è che oggi l’Anp riceve dal fisco israeliano un ritorno di 4,4 miliardi di shekel, insufficienti a pagare già soltanto tutti gli stipendi pubblici che ammontano a 6,1 miliardi.

Gaza, al tempo degli Accordi di Oslo, rappresentava il 36 per cento del prodotto interno lordo della Palestina, un dato che era crollato al 13 per cento già prima del 7 ottobre e che ora praticamente è vicino allo 0. Il pil pro capite oggi in Palestina si attesta a 2,087 dollari. A Gaza il disastro, oltre che economico, è finanziario: manca denaro contante. Per riuscire a comprare quel poco che è disponibile, o per riuscire a scappare, ci si indebita dando a garanzia le macerie delle proprie case. I tassi usurari arrivano anche al 30 per cento. Le restrizioni imposte da Israele al mercato del lavoro nei territori occupati della Cisgiordania variano molto a seconda dell’area presa in considerazione: più lievi nelle zone A e B, assai più severe nella zona C, che è anche quella più minacciata dai settlers. Uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo afferma che, se queste restrizioni fossero tolte, il portafoglio delle famiglie palestinesi potrebbe arricchirsi fino a 4,4 miliardi di dollari all’anno.

La situazione dei palestinesi a Gerusalemme Est non è meno grave. Le due attività principali della città (in particolare della Città Vecchia), cioè commercio e turismo, sono in caduta libera. L’anno scorso le presenze alberghiere hanno contato non più del 9 per cento di quelle delle stagioni precedenti l’inizio della guerra. Ovviamente in prima fila le case di accoglienza dei pellegrini cristiani. La famosa Casa Nova dei francescani è chiusa (tranne poche settimane a Pasqua) da ventuno mesi oramai. Si stima che circa l’80 per cento delle aziende commerciali della Città Vecchia siano fallite dall’ottobre 2023. Tutti i dati riportati — avverte l’Organizzazione internazionale del lavoro — non tengono però conto del diffuso fenomeno, specie in agricoltura e costruzioni, del lavoro “in nero” svolto da palestinesi che non hanno il permesso di ingresso in Israele

Scrive il noto mediatore e pacifista israeliano Gershon Baskin: «Che ci siano i due stati o si realizzi l’annessione, i palestinesi rimarranno sempre i vicini di Israele. E Israele non ha alcun interesse a mantenere il vicino palestinese in uno stato di povertà. Con i necessari controlli di sicurezza certo, ma occorre consentire ai lavoratori palestinesi di tornare a lavorare in Israele. In realtà tenere lontani dal lavoro e disoccupati i palestinesi costituisce per la sicurezza di Israele un pericolo assai più grave che lasciarli entrare a lavorare». Parole di buon senso su cui prevalgono oggi le tendenze discriminatorie. Non solo con le bombe, anche così si uccide un popolo.