· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones

La Cina toglie i dazi all’Africa

 La Cina toglie i dazi all’Africa  QUO-153
04 luglio 2025

di Giulio Albanese

Il governo cinese ha deciso di avviare le procedure per l’esenzione dai dazi doganali al 100 per cento delle merci importate dal continente africano. Non solo: da parte di Pechino vi sarà un occhio di riguardo nei confronti di quei paesi maggiormente svantaggiati che potranno così beneficiare, nelle intenzioni della Cina, oltre che del regime di esenzione tariffaria, anche di agevolazioni al mercato e nelle procedure di ispezione, quarantena e sdoganamento delle merci. Lo si legge nella dichiarazione finale del recente vertice ministeriale del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (Focac), a Changsha, nella Cina centro-meridionale. La decisione mostra una visione diametralmente opposta rispetto alle scelte fatte quest’anno dal governo statunitense di Donald Trump in materia di dazi, che hanno pesantemente traumatizzato il commercio mondiale, compromettendo le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto nell’acronimo in lingua inglese).

Il partenariato Cina-Africa si regge su quattro punti fondamentali: «promuovere una cooperazione di alta qualità», deciso contrasto nei confronti dei fautori dell’«unilateralismo, protezionismo e prepotenza economica», potenziamento dell’assistenza allo sviluppo nei confronti degli stati africani e fattiva promozione delle relazioni internazionali basate sull’uguaglianza e il rispetto reciproco sostenendo «il vero multilateralismo in conformità con il principio di ampia consultazione e contributo congiunto per un beneficio condiviso». In tale contesto il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha auspicato una piena collaborazione con i partner africani per garantire una «globalizzazione economica inclusiva» e la salvaguardia degli scambi multilaterali incentrati sull’Organizzazione mondiale del commercio. Insomma, mentre l’amministrazione Trump ha deciso di affermare una politica protezionistica per consentire al comparto industriale statunitense di essere non solo più competitivo ma (nelle intenzioni) assoluto dominante, la Cina ha adottato un atteggiamento, almeno formalmente, inclusivo per guadagnare il favore dei paesi espressione delle rivendicazioni del Global South (sud globale). Non si tratta di una novità se si considera che la Cina è il principale partner commerciale dell’Africa, un creditore bilaterale e una fonte cruciale di investimenti infrastrutturali. Tra questi ultimi spiccano quelli del comparto digitale che consentono ai paesi africani di utilizzare le piattaforme attraverso le quali possono comunicare al loro interno e con il resto del mondo.

Le nazioni occidentali, naturalmente, non vedono di buon occhio la politica cinese in Africa, giudicandola pericolosamente asimmetrica e soprattutto invasiva. Sebbene Cina e Africa abbiano più o meno la stessa popolazione (un miliardo e quattrocento milioni la prima, un miliardo e cinquecento milioni la seconda), occorre considerare che la Cina è uno stato governato da un unico partito e la sua economia rappresenta quasi il 20 per cento della produzione mondiale. L’Africa, di converso, è un continente diviso in 54 stati per lo più svantaggiati, oltretutto con due aggravanti: hanno vedute spesso non coincidenti e la loro economia complessivamente vale solo il 3 per cento di quella mondiale. Ma non è tutto qui: i legami politici, militari e di sicurezza sino-africani si stanno rafforzando e si stima che le aziende cinesi presenti oggi in Africa rappresentino circa un ottavo della produzione industriale dell’intero continente.

Per correttezza è bene precisare che gli investimenti e i rapporti della Cina con l’Africa sono stati e continuano a essere ancora oggi oggetto di un ampio dibattito nei circoli internazionali. Il motivo principale è legato al fatto che il sostegno finanziario della Cina all’Africa avviene spesso sotto forma di prestiti a lungo termine piuttosto che di sovvenzioni. Motivo per cui la politica di Pechino è stata spesso accusata di nascondere, dietro il vessillo altisonante della cooperazione, la “trappola del debito”; un vero e proprio stratagemma nei confronti dei governi africani per ottenere vantaggi strategici sul continente. Sta di fatto che, contrariamente a quanto molti pensano, dal 2016 i prestiti della Cina all’Africa si sono ridotti. Rispetto ai due decenni precedenti, il governo di Pechino realizza meno megaprogetti, concentrandosi invece su commercio e investimenti. E qui occorre necessariamente fare riferimento a due iniziative: una di matrice cinese, l’altra africana. Tutte e due comunque sinergiche. La prima è la Nuova Via della Seta, meglio nota con gli acronimi Obor (One Belt One Road) e Bri (Belt and Road Initiative), in cinese yidaiyilu, una strategia prevalentemente infrastrutturale e commerciale, tesa a collegare, almeno inizialmente, più di sessanta paesi in Asia, Europa e Africa.

Negli ultimi anni, nell’ambito della Bri, sempre più aziende cinesi hanno sviluppato partnership e collaborato con i governi e le imprese africane per sviluppare progetti di vario genere, soprattutto sul versante dell’energia rinnovabile, dall’idroelettrica a quella eolica, solare e geotermica. Gli stati africani, dal canto loro, hanno lanciato l’Area di libero scambio continentale (AfCfta) che apre di fatto alla possibilità di far circolare liberamente persone e merci da un paese all’altro del continente. L’AfCfta, partita ufficialmente il 1° gennaio 2021, se opportunamente sostenuta potrebbe tra l’altro facilitare l’integrazione dell’Africa nelle catene di valore globali, potenzialmente attrarre ulteriori investimenti cinesi e aumentare le esportazioni africane verso la Cina. Anche perché, in effetti, già da tempo non poche aziende cinesi si stanno trasferendo in Africa, al punto tale che secondo alcuni analisti come Basil El-Baz, fondatore, chairman e chief executive della Carbon Holdings, entro cinquant’anni l’etichetta “Made in Africa” prenderà il posto della più nota dicitura “Made in China”. Ciò in sostanza significa che i prodotti cinesi a basso costo — quelli cioè che in questi anni hanno congestionato il mercato dei paesi occidentali — saranno sostituiti da quelli africani. L’Africa, dunque, potrebbe arrivare e basare la propria economia non solo sulle esportazioni di commodity ma anche di beni a basso costo, seguendo proprio l’esempio della Cina.

Tutto questo spiega anche quale sia l’opinione degli africani nei confronti della Cina. Secondo un nuovo sondaggio condotto in ventinove nazioni da Afrobarometer (la principale agenzia di misurazione dell’opinione pubblica nel continente), la Cina è vista in modo più positivo rispetto a qualsiasi altra potenza globale o regionale in Africa. I risultati pubblicati mostrano che il 60 per cento degli intervistati ha descritto l’influenza politica ed economica della Cina sul proprio paese come “abbastanza positiva” o “molto positiva”. Ciò colloca la Cina davanti alle organizzazioni regionali (56 per cento), all’Unione africana (54 per cento), agli Stati Uniti (53 per cento) e all’Unione europea (49 per cento). La sospensione degli aiuti e il ritiro del sostegno alle istituzioni multilaterali da parte dell’amministrazione Trump potrebbero in parte spiegare il calo della reputazione degli Stati Uniti in Africa. Ma questi ultimi rimangono comunque più popolari rispetto alle controparti europee, che pagano la diffidenza degli africani frutto di secoli di colonialismo.

C’è comunque un aspetto che non può essere sottovalutato nell’indagine di Afrobarometer: tra il 66 per cento degli africani che hanno dichiarato agli intervistatori di preferire la democrazia a qualsiasi altro sistema, si registra una crescente frustrazione per l’operato dei rispettivi governi nelle loro rispettive giurisdizioni. Il sostegno alla democrazia è diminuito di 29 punti in Sud Africa ormai a un anno dal suo primo governo di coalizione dalla fine dell’apartheid; ed è sceso di 23 punti in Mali, governato da una giunta militare dal 2020. Il sondaggio suggerisce inoltre che l’opposizione al governo militare si è attenuata, in particolare in Mali e in Burkina Faso (rispettivamente di 40 e 36 punti). Da rilevare poi che il 45 per cento degli intervistati ritiene che il proprio paese sia in gran parte o completamente democratico, ma solo il 37 per cento si dichiara soddisfatto del funzionamento della democrazia.

Nel frattempo — è bene rammentarlo — il Partito comunista cinese (Pcc) ha intensificato la formazione di funzionari di partito e di governo africani come parte integrante del «nuovo modello di relazioni tra partiti» proposto già nel 2017 dal presidente cinese e segretario generale del Pcc, Xi Jinping, in particolare nel sud del mondo. Di fronte a questo scenario è evidente che l’impegno profuso dal governo di Pechino sarà sempre più rilevante sul panorama politico africano e sul Global South in termini generali.