
di Violante Sergi
Dopo pochi mesi dall’intervista su questo giornale ritrovo Havier, l’attore peruviano sbarcato un anno fa nel nostro Paese che ha dovuto rimboccarsi le maniche e ripartire letteralmente da zero. Havier non è per strada né in fila alla mensa di Colle Oppio, quando lo vedo è su un palcoscenico che recita Goldoni. «Questa è la mia vita, mi dice alla fine dello spettacolo realizzato dalla Casa dei Diritti Sociali, andare in scena mi fa sentire vivo come un delfino nell’acqua». Per più di un’ora ho cercato di capire come fa un delfino a finire per strada, in una pozzanghera, come ne esce e se quella in cui adesso nuota Havier sia acqua di mare oppure acqua dolce, sì, ma chiusa e stantia come quella di un lago.
Con ancora indosso i panni del nobiluomo veneziano protagonista de L’impresario delle Smirne, Havier mi racconta com’era la sua vita fino a pochi mesi fa, quando viveva per strada, poi nei dormitori, «tre mesi in uno, tre mesi in un altro, sveglia alle sette, 8.30 esci, rientri alle 4, ti lavi, 17.30 rosario, messa, 18.30 si mangia, alle sette un po’ di tele e alle dieci si dorme e il giorno dopo sveglia alle sette, 8.30 si esce e ricomincia tutto da capo». Havier fa una pausa, poi riprende: «È strano, sai, perché io non sono come le persone che vivono per strada, ma sto con loro, per mesi ho mangiato con loro, dormito con loro. Non voglio stare qui, mi dicevo, ma devo stare qui, ne ho bisogno». Perché non volevi starci? La mano di Havier sfiora il tricorno veneziano che porta ancora in testa: «Il punto non è la strada, il dormitorio, lavarsi alle 16 o mangiare alle 18, il punto è la routine che toglie senso anche alle cose belle, poi è facile lasciarsi andare, smettere di curarsi, farsi morire».
Com’è che tu non sei morto? «Il motore della mia vita, mi dice lui guardandomi coi suoi occhi fieri e sorridenti, il motore è mia madre. Voglio che lei sia orgogliosa di me». E gli altri, quelli per strada, quelli che si lasciano andare, loro non ce l’hanno una madre? «Certo che ce l’hanno». E allora perché non escono anche loro dalle loro pozzanghere? «Basta che dimentichi chi sei, anche solo per poco, poi è difficile ricordarlo».
Qualche giorno fa ho visto un altro spettacolo, parlava dell’identità, che se uno non la trova alla fine finisce che muore. Guardo Havier col costume di scena ancora indosso, un nobiluomo veneziano del Settecento che tra poche ore, giorni, minuti, riprenderà il suo posto nel mondo e mi viene in mente Cenerentola, una Cenerentola rewind, come direbbe Vasco, che parte principessa e finisce vestita di stracci a fare da sguattera alle sorelle.
Havier, gli dico, ma se domani ti proponessero di partire per una tournée teatrale: sei mesi in giro per l’Italia, e poi chi sa, se va bene anche di più, tu che faresti? Lui mi guarda coi suoi occhi fieri e sorridenti: «Se adesso mi proponessero una tournée gli direi grazie, ma non posso, ho già preso un impegno come badante». Ma… hai detto che il teatro è la tua vita, «è lì che mi sento vivo come un delfino nell’acqua». Lui tocca il tricorno veneziano che ha tenuto in testa finora: «Quando ho varcato la Porta Santa di San Pietro, sai cosa ho sperato?». Io scuoto il capo, io non ho sperato nulla. «Io ho sperato nel passaporto, in un lavoro stabile, e quando ho superato quella porta ho sentito come se mi fossi liberato di un peso, come se uno zaino pieno di sassi mi fosse caduto dalle spalle».
E così dicendo Havier si toglie il tricorno veneziano e lo posa sul tavolo, forse capita a tutti i delfini che di colpo finiscono in una pozzanghera, forse quando tornano nell’acqua dolce si dimenticano del mare aperto, dei salti in aria, le piroette e di quelle risate metalliche con cui parlano al mondo. «Il teatro mi stacca dalla realtà e mi trovo in un luogo in cui sto bene, mi dice lui alzandosi, ora però, devo andare a cambiarmi».
Il nobiluomo del Settecento torna poco dopo, ora indossa jeans e camicia, ma ha sempre lo stesso sorriso e la stessa fierezza. «A volte — mi dice mentre usciamo da teatro —, a volte credo che sia tutto già scritto, che Dio sia un grande sceneggiatore e noi siamo tutti attori». Protagonisti o comprimari? Lui mi guarda: «In questo spettacolo sono partito con poche battute poi, prova dopo prova, sono diventato il protagonista». Facile, gli dico, tu sei un attore, per la prima volta lui mi guarda serio: «Nessuno è un attore, è sul palcoscenico che tu dimostri di esserlo». E tu, Havier, lo sei sempre un attore, che sia nei panni di un nobiluomo in un teatro romano o sul palcoscenico della vita in jeans e camicia, che ti affretti a raggiungere un anziano malato di Alzheimer cui fai da badante e che nel vederti dirà: e tu chi sei? Tu chi sei, Havier? gli domando prima di salutarci. «Te l’ho detto, sono un delfino». Sì, sei un delfino d’acqua dolce.