
Il filosofo Jean-Luc Nancy ha scritto che «non si dà spirituale se non come una tensione corporea» e se questo è vero, allora il cinema, l’arte del visibile, del sensoriale, del corpo messo in scena, si rivela, sorprendentemente, un linguaggio adatto a raccontare la spiritualità e la mistica dei corpi.
Per secoli, il corpo è stato per la spiritualità cristiana un campo di tensione, se non un ostacolo: fragile sede del peccato, luogo del desiderio, barriera da superare per accedere alla dimensione del divino. Ma nella vita di molte mistiche questa visione si capovolge. Il corpo diventa lo strumento privilegiato della rivelazione, il veicolo attraverso cui Dio si manifesta. È il corpo stesso, nella sua vulnerabilità e nel suo eccesso, a farsi spazio sacro.
Rappresentare l’esperienza mistica, però, non è impresa semplice. La mistica sfugge al linguaggio ordinario e per sua natura eccede la forma: è visione, silenzio, vuoto. Ma anche qui, in questo continuo fallimento della parola, il cinema trova un terreno fertile: attraverso il volto, il ritmo, la luce, il tempo sospeso, può evocare ciò che non può mostrare.
Paul Schrader, lo sceneggiatore di Taxi Driver, nel suo libro Transcendental Style in Film, ha descritto come registi quali Dreyer, Bresson e Ozu abbiano fatto dello stile il varco attraverso cui suggerire l’invisibile: eliminando il superfluo, rallentando l’azione, rendendo il tempo esperienza interiore. Una forma di ascesi estetica che diventa, per lo spettatore, esperienza quasi contemplativa.
Accade, tuttavia, anche l’opposto: che il sacro entri nel cinema attraverso l’eccesso, il conflitto, la carne. In Benedetta (2021), recente film dello “scandaloso” Paul Verhoeven e ispirato alla figura storica della monaca Benedetta Carlini, le visioni divine si alternano a esperienze sensuali e la santità si confonde con il potere e la trasgressione. Il film, controverso e volutamente ambiguo, mette in scena la spiritualità come corpo che arde e che sanguina, sfidando ogni rassicurante distinzione tra fede e follia. Il sacro, nel cinema, può inquietare, scandalizzare, perfino sedurre.
Tra le figure più rappresentate e discusse sul grande schermo c’è certamente quella di Giovanna d’Arco. Simbolo di purezza e ribellione, di obbedienza e sovversione, la santa guerriera ha attraversato il Novecento cinematografico incarnando le tensioni dell’epoca. In La passion de Jeanne d’Arc (1928), Dreyer filma il volto di Renée Falconetti con primi piani spogli e struggenti: la santità si scrive nella carne, nella sofferenza muta, nella verità che traspare dagli occhi. In Giovanna D’Arco (1999) di Luc Besson, Giovanna è invece una giovane disturbata, lacerata tra la voce divina e la realtà. Combattente, profeta, donna d’azione, più che di silenzi.
Se nel volto martoriato di Falconetti il cinema trova la sua icona mistica e non c’è bisogno di effetti o miracoli, perché Dreyer filma la spiritualità senza mediazioni, attraverso la pura esposizione del corpo come luogo sacro. Nella Giovanna di Besson si guarda al corpo come campo di tensione contraddittoria e si oscilla tra due poli: da un lato la santa guerriera, ispirata da Dio, dall’altro la giovane allucinata e vittima del suo tempo.
Una Giovanna rappresentata più agiograficamente, invece, è quella incarnata da Ingrid Bergman nella Giovanna D’Arco diretta da Victor Fleming (1948). Il cinema classico hollywoodiano predilige un racconto equilibrato in cui la forza del misticismo e del corpo non venga enfatizzata, a favore di una biografia dalla messa in scena semplice e rigorosa, che non riesce però a dare la piena dimensione della profondità della figura raccontata.
Un altro film d’impianto più tradizionale ma decisamente più riuscito nella rappresentazione del misticismo è Thérèse (1986) di Alain Cavalier. Il film racconta la breve vita di Santa Teresa di Lisieux senza cadere nella retorica religiosa. Cavalier adotta una messa in scena essenziale: scenografie ridotte al minimo, luci basse, ambienti chiusi e silenziosi. La forma è al servizio della sostanza: non si tratta di mostrare miracoli o estasi spettacolari, ma di far emergere, con delicatezza, il rapporto intimo e struggente che Thérèse intrattiene con Dio attraverso la quotidianità, la malattia, la fragilità del corpo.
Il regista costruisce il racconto come una liturgia intima. I gesti della giovane carmelitana, come lavare un bicchiere, recitare una preghiera o scrivere una lettera acquistano progressivamente un valore sacramentale. L’esperienza spirituale di Thérèse si esprime attraverso la pazienza, l’obbedienza, la tenerezza che riserva alle consorelle. Il corpo, in questo contesto, è oggetto di ascesi ma anche spazio di donazione: Teresa si consuma, letteralmente, nella malattia e trasforma la sofferenza in un atto d’amore radicale.
Il film raccontare la mistica non come spettacolo dell’eccezionale, ma come esperienza quotidiana, nascosta, incarnata. Teresa non ha visioni, non riceve stimmate, non predica ma semplicemente ama, serve, offre. Il film ci invita a riscoprire la potenza spirituale della debolezza, la fede come forma estrema di abbandono e fiducia.
Il corpo mistico è anche luogo di potere. Le mistiche medievali, da Angela da Foligno a Caterina da Siena, da Teresa d’Avila a Veronica Giuliani, hanno vissuto esperienze spirituali che passano attraverso il corpo: visioni, estasi, stimmate, digiuni, automortificazioni. Non si tratta solo di esperienze interiori, ma di veri linguaggi incarnati. Come è stato scritto in vari studi, per molte donne medievali il corpo era l’unico strumento disponibile per esprimere la propria relazione con Dio, in un contesto che negava loro la parola pubblica e il potere ecclesiale. Il corpo, allora, diventa non solo tempio ma voce, gesto, resistenza.
Questa dimensione profonda e sovversiva della mistica femminile è al centro del film La settima stanza (1995) di Márta Mészáros, dedicato alla figura di Edith Stein, filosofa ebrea convertita al cattolicesimo, carmelitana e infine martire ad Auschwitz, dove morirà. Il titolo allude esplicitamente all’opera di Teresa d’Avila Il castello interiore, dove l’anima, attraversando sette stanze, giunge all’unione mistica con Dio. Nella settima stanza, che per Edith è il lager, si consuma non solo la fine della vita, ma anche l’atto più alto di offerta. Mészáros filma con pudore e rigore la spiritualità incarnata di Edith: il silenzio, la dolcezza, la dedizione. Non c’è spettacolo né miracolo, ma una fede che passa per il corpo e resiste nel dolore.
Ed è un’altra donna regista che ci regala un ulteriore intenso racconto di misticismo femminile. Si tratta di Margarethe Von Trotta che in Vision del 2009 mette in scena la vita di Santa Ildegarda di Bingen, monaca benedettina, mistica, guaritrice, filosofa e musicista del XII secolo. La regista tedesca, da sempre attenta alle biografie di donne “eretiche” e fuori dal canone, restituisce con rigore storico e profondità emotiva la complessità di una figura capace di coniugare fede, sapere e autorità in un mondo dominato dagli uomini.
Il film evita volutamente gli effetti speciali e la spettacolarizzazione delle visioni per concentrarsi sugli effetti dirompenti che esse producono nella comunità e nelle istituzioni ecclesiastiche. La visione, nel film, non è perciò un’immagine da mostrare ma un’esperienza da incarnare: nel volto assorto di Ildegarda, nella sua voce ferma che chiede udienza a vescovi e abati, nei suoi gesti concreti. Anche il corpo, nella narrazione di von Trotta, non è negato: è anzi luogo di mediazione mistica, strumento di lotta e di cura. Ildegarda, spesso costretta a letto da malattie improvvise, reagisce con fierezza e creatività, trasformando la sofferenza in spinta propulsiva alla missione
È proprio questa immagine di corpo silenzioso e offerto che ci riporta, in modo sorprendente, all’opera barocca forse più famosa della mistica scolpita: L’Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Lì, in quella carne raffigurata che si solleva e si abbandona al colpo dell’angelo, il corpo è espressione di un’esperienza spirituale così intensa da sembrare erotica. «La dolcezza dolorosa di quel contatto era così grande, che non potei desiderare che cessasse», scriveva Teresa nel suo diario. Alcuni osservatori, come il Marchese de Sade, notarono con ironia che «si stenta a credere che si tratti di una santa». Eppure, proprio in quella contraddizione, tra estasi e desiderio, tra spirito e carne, si gioca il mistero della mistica femminile.
Questa consapevolezza attraversa anche la riflessione di Andrej Tarkovskij, che pure non ha mai messo in scena direttamente figure di sante o mistiche. Eppure, il suo cinema è pervaso da una spiritualità profonda, da una tensione verso l’assoluto che si manifesta nella materia stessa dell’immagine. In Scolpire il tempo scrive: «L’arte è una preghiera. È un atto di fede. È un tentativo di entrare in contatto con l’assoluto». Per Tarkovskij, il tempo scolpito dalle immagini è come l’anima che si lascia trasformare dalla grazia. I suoi personaggi attraversano il dolore, il vuoto, l’attesa: sono pellegrini del senso, corpi offerti all’ignoto. «La vera immagine è quella che racchiude in sé un segreto», scrive. E in questo senso, anche senza santi né estasi, il suo cinema è mistico.
Il cinema, arte della luce proiettata nell’oscurità, è forse, dunque, il linguaggio più vicino all’esperienza mistica. Non perché possa rappresentare il divino, ma perché sa evocarlo. Come le sante che parlavano attraverso la carne, così il cinema parla attraverso il corpo, la luce, il volto. E lascia che lo spettatore si avvicini, in silenzio, al mistero. Anche attraverso un’inquadratura.
di Paola Dalla Torre