· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Storie di donne tra cinema, fede e rinascita spirituale

Quando la crisi porta a Dio

 Quando la crisi porta a Dio  DCM-007
05 luglio 2025

Se il cinema, per sua natura arte della visione, necessita, formalmente, di un linguaggio non verbale e, tematicamente, di una drammaturgia che esplora le fenomenologie della crisi, tanto più quello d’autore le propone con originali poetiche, tra ricerca e mistero, nella pluralità dei generi: dal dramma alla commedia, dal musical al fantasy, dal biopic all’horror e nella levatura di interpreti quali Ingrid Bergman, Audrey Hepburn, Jennifer Jones, Sophia Loren, Anna Karina, Silvana Mangano, Vanessa Redgrave, Julie Andrews, Susan Sarandon e Meryl Streep.

E se lo sguardo sulla crisi ha incluso anche la sfera spirituale lo si deve a teorici che hanno indagato sulla presenza/assenza di Dio e ad autori che in modalità diretta o indiretta se non provocatoria, irriverente quando non blasfema, hanno elaborato itinerari interiori di corrispondenza o discrasia tra fede ed eresia, vocazione e ribellione, vita attiva e vita contemplativa. Dall’ascetica classicità del Robert Bresson de Les Anges du péché (1943) alla provocazione surreale del Luis Buñuel di Viridiana (1961), dalla conflittualità politico-religiosa del Jacques Rivette de la Suzanne Simonin, la Religieuse de Diderot (1966) al pamphlet grottesco del Ken Russel di The Devils (1971), dall’irrisione boccaccesca del Decameron (1971) di Pier Paolo Pasolini, ripresa dai fratelli Taviani nel Maraviglioso Boccaccio (2015) fino alle suggestioni dello sguardo al femminile di Márta Mészáros, Margarethe von Trotta, Liliana Cavani, Anne Fontaine, Margaret Betts, Maura Delpero.

In tale variegata casistica un valido avvio alla riflessione può essere la lettura della crisi proposta in Europa ’51 di Roberto Rossellini (1952), ispirato a Simone Weil, Herbert Marcuse e a un fatto di cronaca.

La protagonista, Irene (Ingrid Bergman), donna altoborghese, è sconvolta, nella vacuità della sua esistenza, dalla morte del proprio bambino suicidatosi per carenze affettive. Di fronte ad un vuoto incolmabile s’interroga, in un percorso di ascesi, sul senso ultimo del proprio dolore e così facendo cade nel “peccato mortale” del non-conformismo, non adeguandosi all’insincerità programmatica delle istituzioni totali. Né i familiari, né il cugino marxista, né il sacerdote, né il giudice, né lo psichiatra, esponenti dell’ordine costituito, riusciranno a comprendere l’elaborazione del dolore di Irene, la sua distopia e le conseguenti scelte radicali, sopportando la nudità di cui parla la Weil nei suoi Quaderni. Internata in una clinica psichiatrica, sarà invece considerata santa da coloro che aveva amato in modo disinteressato e anticonvenzionale.

Con sorprendente attualità Rossellini, anticipando le tematiche delle periferie e degli ultimi, mette in scena la cura di Irene verso i diseredati che vivono ai margini e la dura vita degli operai in fabbrica. Con un “documentario sul volto”, l’autore narra un dolente itinerario esistenziale alla fine del quale emergono follia ed emarginazione, ma anche speranza e forza morale in un processo di purificazione negli attraversamenti del dolore. L’enunciazione rosselliniana, in tal modo, rivela che ogni gesto di amore è esperienza del divino e ricerca dell’Assoluto.

L’evocazione claustrale, indotta dalla sequenza finale della grata, giunge a conferma di quanto Irene aveva dichiarato al giudice che la incalzava sul senso delle sue reali intenzioni: «… voglio dividere la gioia di chi è felice, il dolore di tutti quelli che soffrono, l’angoscia di chi si dispera. Preferirei perdermi con gli altri che salvarmi da sola. Solo chi è completamente libero può confondersi con tutti, solo chi è legato a niente è legato a tutti gli esseri umani».

Nella sequenza conclusiva a finale aperto, la protagonista, attraverso lo sguardo “in camera”, interpella direttamente lo spettatore. Dalle immagini, epurate ad eccezione del volto, filtra, nello spazio lasciato vuoto dai corpi, l’idea del trascendente.

Il ricorso alla rappresentazione del volto inteso non come oggetto parziale, ma come astrazione da ogni coordinata spazio-temporale è ripreso dalla personale stilizzazione di Alain Cavalier in Thérèse (1986), interpretato da Catherine Mouchet. Con la sua rilettura della figura storica di santa Teresa del Bambin Gesù, si entra nel cuore del claustrum, dove l’essenzialità del volto funziona anche qui da chiave ermeneutica, un vis-à-vis con Thérèse, in una narrazione senza iato tra leggerezza e profondità, vita e morte. Il risultato di tale procedimento che fa appello ad un marcato virtuosismo iconografico non è un ritratto apologetico/agiografico, ma quello di un’adolescente con un obiettivo preciso e definitivo: diventare santa.

La novità consiste in un itinerario di ascesi stilistica analogo a quello spirituale della protagonista e, in coerenza con tale scelta, il claustrum funziona come spazio/tempo per una riflessione sulla vocazione, lasciando parlare i vuoti più dei pieni, la rarefazione più della condensazione, i silenzi più dei suoni.

La drammaturgia del luogo chiuso avvince anche un autore come Michelangelo Antonioni apparentemente lontano da tematiche spirituali, ma estremamente sensibile al vuoto esistenziale e all’assenza di senso.

È lo stesso regista a rivelarne la fascinazione dopo aver letto il diario della monaca di clausura Catherine Thomas dal titolo My Beloved. The Story of a Carmelite Nun (Mio Amato. La storia di una monaca carmelitana). Pur confessando il proprio disinteresse per l’ascetismo, ma consapevole che la ragione non sia in grado di spiegare la clausura, Antonioni afferma:«Quale risposta possono dare queste monache se hanno scelto per disciplina non dare risposta? La difficoltà di capire la loro vita non dipende né dal rigore della Regola né dal modo in cui la attuano. Dipende da noi che non cerchiamo una sosta di riflessione nel mistero della loro esperienza» e cita santa Teresa d’Avila: “O patire o morire, ecco quali devono essere i nostri desideri”.

Dalle prime tre pagine del diario, il regista trae, alla fine degli Anni ’70, il soggetto Patire o morire che lo porta a visitare 14 monasteri di clausura e instaurare anche delle relazioni epistolari con alcune monache. Ad una di esse Antonioni pone una domanda indiscreta: «E se mi innamorassi di te?», a cui segue una risposta folgorante: «Sarebbe come accendere una candela in una stanza piena di luce». Il lungometraggio non sarà realizzato, ma argomento e dialogo verranno ripresi in Al di là delle nuvole (1995), distillandoli nell’episodio dal titolo Questo corpo di fango, dove una ragazza (Irène Jacob) accetta di fare un tratto di strada, nella città delle cento fontane, Aix-en-Provence, in cui l’acqua delle fonti e della pioggia evoca la rigenerazione, con uno sconosciuto (Vincent Pérez) che si informa della sua vita, affascinato dalla sua misteriosa serenità. La cinepresa segue tali pedinamenti dalla chiesa sino alla soglia di casa quando, alla richiesta di poterla rivedere, la ragazza fulminea replicherà: «domani entro in convento».

Dalla consapevolezza di una vocazione corrisposta, con Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio (2015), evoluzione di un precedente corto La monaca (2010), si affronta, pur se tangenzialmente, il tema opposto delle monacazioni forzate nel XVII secolo, legato all’istituto del maggiorasco che prevedeva l’eredità esclusiva del primogenito violando la libertà di scelta individuale e all’istituto del fedecommesso. Fenomeno diffuso anche se il Concilio di Trento nel Decretum de regularibus et monialibus (1563) dichiarava anatema contro chi violasse la libera volontà, anche attraverso la costrizione di natura psicologica.

Sul dramma esiste una vasta letteratura nella storia di genere anche con adattamenti cinematografici che hanno narrato la vita del claustrum, per alcune donne luogo di autoaffermazione, per altre dimora coatta, dando vita anche a un particolare sottogenere, il nunsploitation, che ha insistito, spesso con compiacimento morboso, sulla sessualità, sulla tortura e sulle possessioni.

Di ben altra caratura e giocato su epoche diverse, il film di Bellocchio narra di una monaca “forzata”, Benedetta (Lidiya Liberman), che seduce il confessore Fabrizio (Pier Giorgio Bellocchio) inducendolo al suicidio. Il gemello Federico, uomo d’armi, cerca, senza risultato, di convincerla a confessare di essere una strega e, tuttavia, la donna sarà murata in una minuscola cella con feritoia.

Girato a Bobbio, in provincia di Piacenza, nella prigione ricavata da un’ala dell’abbazia di San Colombano, in quanto storia di spazi interconnessi testualmente e metalinguisticamente, il film attinge ad una serie di elementi atti a rappresentare la mentalità di un’epoca intrisa di pratiche magiche ed ascetico-disciplinari.

Esso ha inizio infatti con una porta chiusa, elemento che collega figurativamente, tra nascondimenti e svelamenti, epoche diverse come “cosmo del socchiuso”, secondo la concezione di Gaston Bachelard, che chiude/apre a topografie interiori.

La metafora della dualità interno/esterno, luce/ombra trova il suo culmine infine nella muratura/smuratura della cella, nella forza immaginifica di una liberazione, non solo materica, nel ri-venire alla luce. Vediamo infatti il levarsi di Benedetta, nella nudità di corpo incorrotto dopo una straziante purificazione/decarnificazione, come una sorta di anástasis, resurrezione di quell’eterno femminino, memoria e anima del tempo.

di Tiziana M. Di Blasio
Storica, già docente del corso di “Teoria e Storia del cinema” Pontificia Università Gregoriana