Quell’equilibrio buono

di Erio Castellucci
La formula «Giornata di preghiera per la santificazione dei sacerdoti» fa pensare di primo acchito a un’iniziativa intraecclesiale, racchiusa nello spazio sacro, separato dagli ambienti profani e quotidiani. La collocazione nel giorno della solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù (27 giugno) sembra poi confermare questa impressione, aggiungendo un tocco devozionale seicentesco. Leggendo però alcuni tratti del Vangelo, nei quali Gesù traccia la sua missione, queste impressioni svaniscono. Lui si presenta come «consacrato con l’unzione e mandato a portare il lieto annuncio» a poveri, prigionieri e ciechi (cfr. Luca, 4, 18) e come «colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo» (Giovanni, 10, 36).
Non c’è santità cristiana che non si intrecci con la missione e non c’è missione cristiana che non sia intrisa di santità. Il perno, la misura e l’energia della santità missionaria di ciascun battezzato, membro della Chiesa popolo sacerdotale, è il cuore di Cristo, l’amore senza misura con cui si è donato al Padre e a noi (cfr. Papa Francesco, Dilexit nos, 2024). La consacrazione di Gesù è totalmente orientata al mondo profano, al punto da compiersi attraverso la pena maledetta della croce, nello spazio sconsacrato del Golgota. E la missione di Gesù è totalmente radicata nel mondo divino, nella relazione con il Padre e con lo Spirito, nello spazio santissimo della Trinità. Gesù ha lacerato la separazione tra sacro e profano, tra consacrazione e missione nel mondo, attraverso la pratica di un amore totale e incondizionato, quell’agape che è il nome stesso di Dio (cfr. Giovanni, 4, 8.16).
I sacerdoti cristiani si santificano nella stessa logica degli altri discepoli del Signore: offrendosi, amando nello stile del dono di sé, lo stile della carità. I ministri ordinati declinano una delle forme della carità, nel ricco panorama cristiano delle vocazioni e dei carismi: la forma pastorale. Se i laici sono chiamati a santificarsi esercitando la loro missione come carità sociale e politica (cfr. Papa Francesco, Fratelli tutti, 180-182), e gli sposi inoltre come carità coniugale e familiare (cfr. Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 47-52), i ministri ordinati sono chiamati a santificarsi vivendo la loro missione come carità pastorale (cfr. Concilio Vaticano II, Presbyterorum ordinis, 12).
L’aggettivo “pastorale”, nell’uso comune, scivola immediatamente nella semantica operativa, qualificando parole come “iniziativa”, “attività”, “convegno” e simili; cosa ovviamente del tutto legittima, se però non mette in ombra l’origine cristica dell’aggettivo: il riferimento cioè al buon Pastore. La prima dimensione della carità pastorale, la sorgente della santità e la forza della missione, è Cristo Pastore, che rivela un cuore esageratamente amorevole verso di noi, il suo gregge: «Offro la vita per le pecore» (Giovanni, 10, 15). Questa eccedenza, che supera ogni criterio ragionevole nel rapporto tra dedizione del pastore e necessità del gregge, è l’anima della carità pastorale.
Quando il contatto vivo con il cuore di Cristo, nella preghiera, nell’ascolto della parola di Dio e nella celebrazione eucaristica, è sostituito dalle “cose da fare” (il “martalismo”), i ministri potranno certo compiere servizi utili, prestazioni qualificate e opere benemerite; ma non vivranno la qualità dell’amore di Cristo buon Pastore, e ben presto si troveranno a ragionare su un piano solamente orizzontale, finendo per calcolare vantaggi e svantaggi delle loro azioni, per cercare compensazioni umane e finalmente andare in crisi rispetto al senso del proprio servizio. Quando un ministro smette di attingere al cuore del buon Pastore — cosa che può avvenire anche impercettibilmente — a poco a poco dismette il servizio alle persone a cui è inviato e serve solo sé stesso; è la deriva dell’attivismo.
Esiste anche il rischio inverso, quello cioè di chiudersi in una sorta di relazione verticale con Dio, avvertendo come fastidi e intrusioni le richieste e le necessità della gente. Non mancano i ministri “rifugiati” nelle sagrestie o nel perimetro dell’area presbiteriale. Il ministero diventa in tal modo sterile, chiuso, perfino triste. Occorre ricordare che il rapporto vivo con la gente non è unidirezionale, come se il ministro fosse la sorgente della grazia, che invece è solo il Signore; è piuttosto un rapporto di reciproca cura, dove il ministro stesso matura, cambia e cresce nel rapporto con le persone e comunità per cui svolge il suo servizio. Per echeggiare la metafora evangelica, anche il gregge custodisce e plasma il pastore. Chi lo dimentica, cade nella deriva dell’intimismo e talvolta anche del clericalismo. Se la prima, l’attivismo, è una patologia della missione, la seconda, l’intimismo, è una patologia della consacrazione. Entrambe conducono al medesimo risultato: un ministero autocelebrativo, dove la consacrazione e la missione non sono più quelle di Gesù, buon Pastore.
Grazie a Dio, la Chiesa regala ai ministri ordinati oggi le risorse per affrontare le crisi, inevitabili non solo come sacerdoti ma, prima ancora, come esseri umani e come discepoli cristiani. Vale per tutti, ma in particolare per i ministri cristiani, ciò che Papa Leone XIV ha detto al Giubileo dei seminaristi: «Tenendo lo sguardo su Gesù, bisogna imparare a dare nome e voce anche alla tristezza, alla paura, all’angoscia, all’indignazione, portando tutto nella relazione con Dio. Le crisi, i limiti, le fragilità non sono da occultare, sono anzi occasioni di grazia e di esperienza pasquale». «Lo sguardo su Gesù», dunque, a partire dal suo cuore che nell’evento della Pasqua ci ha amato fino alla fine.
Un equilibrio buono tra contemplazione e azione, tra preghiera e servizio, tra culto e fraternità, evitando le derive dell’intimismo e dell’attivismo, è possibile ed è testimoniato da tanti presbiteri, diaconi, vescovi. Il Vangelo è appassionante, altrimenti non è Vangelo; e la dedicazione della propria vita all’annuncio del Signore fatto carne, morto e risorto, è un servizio che dà gioia prima di tutto a chi lo esercita. Il Concilio Vaticano II e il magistero successivo hanno colto moltissime sfumature del ministero. Basterebbe riprendere in mano il Decreto sui presbiteri, che pone un circolo virtuoso tra l’esercizio del ministero e la santificazione dei presbiteri: annunciando la parola di Dio, essi stessi la ascoltano e la calano nel cuore; celebrando l’eucaristia, sono spronati a imitare ciò che compiono; pascendo il popolo di Dio, imprimono più profondamente in loro stessi la carità del buon Pastore (cfr. Presbyterorum ordinis, 12-13). Allora tutto per i ministri, fatiche e crisi comprese, va sempre messo a confronto con la sorgente, il cuore di Gesù, radice e modello della consacrazione e della missione.