
di Guglielmo Gallone
Ordine e diritto non sono la stessa cosa. L’ordine è imposto dal più forte, secondo la sua visione del mondo, mentre il diritto è frutto di una scelta comunitaria e di un compromesso fra le parti. Oggi l’ordine sembra vincere sul diritto. I conflitti militari imperversano senza alcun rispetto delle norme, le guerre commerciali vengono mosse senza consultare le apposite strutture, le sanzioni imposte a livello internazionale sono sottomesse a continue violazioni. È l’epoca delle grandi potenze. La domanda che dunque molti si pongono è se, di fronte a un mondo radicalmente cambiato rispetto a solo pochi anni fa, vi sia ancora spazio per una struttura come quella delle Nazioni Unite. A ottant’anni dalla nascita dell’Onu, ne abbiamo parlato con Vincenzo Buonomo, professore ordinario di diritto internazionale e coordinatore dei dottorati della facoltà di diritto civile presso la Pontificia Università Lateranense.
«Mantenere la pace e la sicurezza internazionale; sviluppare relazioni amichevoli tra le nazioni; conseguire la cooperazione internazionale per risolvere problemi economici, sociali, culturali e umanitari; promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani; costituire un centro per il coordinamento dell’attività delle nazioni volta al conseguimento di questi fini comuni». Oggi siamo lontani anni luce da quanto auspicato nell'articolo 1 della Carta dell'Onu. Cosa non sta funzionando?
Io partirei invece da ciò che ha funzionato. Anzitutto, dall’ultimo paragrafo del primo articolo: ottant’anni dopo, l’Onu è il centro per il coordinamento dell’attività delle nazioni volto al conseguimento di fini comuni. Pensiamo ai diritti umani, su cui abbiamo avuto una promozione e una protezione sempre più ampia proprio grazie alle varie attività delle Nazioni Unite. Potremmo citare la convenzione sui diritti dell’infanzia o la convenzione contro la tortura. Pensiamo poi a tutte le azioni promosse per il disarmo, che ci hanno consentito di avere una serie di limitazioni nell’uso di armamenti come le mine anti-uomo, le bombe a grappolo o gli armamenti nucleari, fino alla recente convenzione che ne ha proibito la costruzione. Sono atti che, in materia di disarmo, hanno fatto maturare una coscienza: determinati armamenti non vanno utilizzati. Oggi resta aperta la grande questione delle cosiddette armi autonome, di fronte alle quali non abbiamo ancora una normativa, ma su cui l’Onu e le sue strutture stanno lavorando. Pensiamo poi al tema dello sviluppo e citiamo un dato concreto: negli anni Settanta il 32 per cento della popolazione mondiale soffriva la fame e la malnutrizione. Oggi siamo al 7 per cento. C’è stata un’intensa attività in sede Onu che ha consentito questa trasformazione. È vero: queste normative internazionali hanno modificato l’atteggiamento di tanti Paesi ma non di tutti. Tuttavia, esse sono state capaci di intaccare quello che noi dobbiamo considerare l’elemento portante della comunità internazionale: la coscienza dei popoli. L’interconnessione di cui tanto oggi si parla significa che i problemi di uno Stato difficilmente possono essere risolti all'interno di quello Stato. C’è una necessità oggettiva di dover comunicare e gestire insieme i problemi. E l’Onu è l’unico attore capace di farlo.
Tuttavia, se da un lato dei segnali di evidenti miglioramenti ci sono, dall’altro la cronaca ci impone di parlare di conflitti, di pericolo nucleare, di guerre commerciali: l’apparente paralisi delle istituzioni internazionali sta contribuendo alla crisi del multilateralismo?
La paralisi delle istituzioni internazionali è dovuta ad una crisi non di identità delle istituzioni, bensì a una crisi delle modalità che le istituzioni rappresentano. Cioè, se da un lato esse sono frutto di una scelta multilaterale che accompagna la storia delle relazioni internazionali, dall’altro noi siamo passati da un modello multilaterale a un modello multipolare. Il succo della crisi sta tutto qui. Nel modello multipolare ognuno esprime il proprio interesse nazionale e lo esprime nelle forme peggiori, in alcuni casi persino col ricorso alle armi, al conflitto. Per inciso: le armi non sono soltanto quelle tradizionali, bensì anche i dazi, le chiusure di mercato, le limitazioni al trasferimento di tecnologie e quindi al know-how. Certamente, tutto questo viene fatto in ragione di un interesse nazionale. Sostituire al multilateralismo il multipolarismo e quindi l’interesse nazionale significa non avere un punto di riferimento centrale in grado di assumere decisioni. L’Onu nasceva invece da un’intuizione: tutto ciò che è comune ha bisogno di soluzioni comuni. Noi oggi celebriamo l’ottantesimo anniversario della conferenza di San Francisco. L’Onu entrò in funzione il 24 ottobre 1945. Nello stesso giorno del 1648 si concluse la pace di Vestfalia. Non è un caso. Ora questo modello si sta scontrando con gli interessi nazionali e si parla di crisi del diritto internazionale. Eppure, io non vedo alcuna crisi. Abbiamo delle violazioni, come qualunque ordinamento giuridico, e assistiamo ad una reinterpretazione delle norme internazionali in funzione del multipolarismo. Un esempio viene dai conflitti. Aver modificato l’obiettivo dell’azione militare, e cioè colpire l’obiettivo civile come se fosse militare, dimenticando il principio di distinzione, significa rileggere e reinterpretare un principio fondamentale della vita internazionale. E questo credo che pesi sull'andamento dei conflitti stessi. Per cui colpire i civili diventa un accadimento collaterale, qualcosa di imprevedibile. In realtà, se utilizzassimo le norme, anche questo potrebbe essere previsto, in base alla logica secondo cui anche la guerra, ahimè, ha le sue regole.
Soffermiamoci sulla parola multipolare. Un tempo il centro del mondo erano Stati Uniti e Unione Sovietica. Oggi il centro del mondo è il mondo. Di bipolarismo non si parla più. Come mai però per le organizzazioni internazionali c’è sempre meno spazio?
Oggi gli Stati preferiscono l’accordo bilaterale, che è però un accordo evanescente: esso non ha la stessa garanzia di quello multilaterale. Nell’accordo bilaterale tutto dipende dalla volontà dei contraenti che, nell'ultimo periodo, è fluida. Il principio di buona fede, il pacta sunt servanda, molto spesso è dimenticato. Quindi, quella che potrebbe sembrare nell’immediato una soluzione del problema, in realtà è soltanto un rinvio del problema. Torniamo ai conflitti: oggi noi puntiamo non ad una pace rispetto ai conflitti in atto, bensì ad un cessate-il-fuoco. Sembra, e questo è assurdo, che tutto debba essere ridotto ad una conclusione minimale secondo cui siamo felici se non si spara. Ciò significa perdere di vista quello che è, facendo riferimento all’enciclica Pacem in terris, l’obiettivo effettivo della pace. Dove verità e giustizia sono non termini vuoti, bensì fattori concorrenti e necessari alla pace stessa.
Papa Leone XIV, incontrando il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha detto che «è necessario ridare respiro alla diplomazia multilaterale e a quelle istituzioni internazionali che sono state volute e pensate anzitutto per porre rimedio alle contese che potessero insorgere in seno alla Comunità internazionale». Secondo lei, come si raggiunge questo obiettivo?
L’Onu nasce per sottrarre l’uso della forza ai singoli Stati e conferirlo ad una struttura multilaterale, il Consiglio di sicurezza, in ragione della devastazione della Seconda guerra mondiale. Oggi, però, tutti gli Stati cercano di riprendersi questo tipo di competenza e, per farlo, pensano di poter utilizzare la forza. Questo credo sia il cuore del richiamo fatto dal pontefice. Affinché sia messo in atto, le istituzioni internazionali vanno certamente ripensate: non è più pensabile avere di fronte la carta dell’Onu così come era strutturata ottant’anni fa. In concreto, andrebbe attuata una vera riforma del Consiglio di sicurezza di cui si parla da troppo tempo, andrebbe snellito tutto il sistema Onu e andrebbero eliminate le organizzazioni che sono un duplicato. Ancora, occorre pensare ad obiettivi che nella Carta attuale non ci sono. Lo scopo generale della pace e della sicurezza non è più rispondente alla realtà. Oggi abbiamo forme di conflitto che non sfociano in una guerra, ma i cui effetti sono peggiori o pari a quelli di un conflitto. Il tema dello sviluppo non può essere più visto nella forma dell’aiuto e dell’assistenza, ma va visto nell’effettivo uso del termine cooperazione, che significa operare insieme. E qui scatta l’elemento, sottolineato da Papa Leone, di una visione solidale in cui si assiste nella forma in cui si fa crescere. Non si assiste per tenere l’assistito nella stessa posizione.
Su questi obiettivi, non c’è un contrasto fra organizzazioni internazionali e organizzazioni regionali?
La specializzazione fa parte del multilateralismo. Il multilateralismo non è un monolite, ha previsto la presenza di organizzazioni diverse, per competenze e per aree geopolitiche. Il problema sta nel coordinamento. L’appartenenza ad organizzazioni regionali non può limitare la partecipazione di quello stesso Stato agli apparati universali. Senza poi tenere conto che le relazioni internazionali non sono più limitabili all’attività degli Stati. La società civile incide sulle linee di politica internazionale. Quindi il processo di riforma del sistema internazionale parte dal basso.
Concludiamo con una provocazione: cosa accadrebbe se l'Onu chiudesse?
Chiudere l’Onu significa non chiudere un’organizzazione, bensì pensare che ognuno si salva da solo. E questo non è possibile.