
Con l’associazione Amici del Medio Oriente, pellegrinaggio nella Turchia siriaca dove i pochi cristiani cercano di far sopravvivere le proprie tradizioni, quelle che Leone XIV invita a custodire «senza annacquarle».
di Antonella Palermo
«Se si vuole capire la logica della salvezza non si deve temere di essere piccolo gregge, granello di senape, lievito»: monsignor Paolo Bizzeti, già vicario apostolico di Anatolia e tutt’ora presidente della Caritas locale, lo ripete mentre fa da guida nel Tur Abdin. In quarantatré villaggi, fino a un secolo fa quasi interamente cristiani, oggi su una popolazione di 14.000 abitanti c’è solo una famiglia cristiana. Vive a Ömerli, sulla strada che da Mardin (dove sono centodieci le famiglie cattoliche) porta a Midyat. Due coniugi, quattro figli, i nonni, due zii disabili. Cemil Akdemir, fabbro da sette generazioni, custodisce una memoria fatta di artigianato, semplicità, onestà, integrità di fede: «Non siamo servi del denaro ma servi del nostro Signore», sottolinea quando incontra i pellegrini nella chiesa di San Giorgio, un piccolo gioiello nel suo villaggio, di cui con zelo cura la manutenzione e l’ammodernamento. La chiesa è il perno attorno a cui si fonda il legame di comunità, con gli antenati e con le famiglie cristiane che qui sperimentano il valore della solidarietà. Cemil non ha potuto studiare e proprio per questo vuole che i figli proseguano la scuola, se necessario anche fuori dalla Turchia. «Questo è un villaggio troppo poco sviluppato», racconta preoccupato, come molti, per l’aumento del costo della vita. Svezia, Svizzera, Italia, Germania sono i paesi maggiormente scelti in passato come destinazione alternativa per un futuro migliore.
«Come fate a resistere saldi nella fede?» è la domanda che emerge più di frequente: «Leggendo il Vangelo», la risposta. Ci si percepisce come co-eredi di Pietro, appartenenti a una discendenza. «Io e la mia famiglia non rappresentiamo solo noi stessi. Se c’è amore, allora si può vivere», osserva Cemil e parla dell’importanza del rispetto: «L’amore vince sempre, la spirale dell’odio no».
Il cristianesimo «non si tiene insieme con un adesivo che incolla dei concetti o delle emozioni ma attraverso la testimonianza della Buona Notizia» che è fonte inesauribile di conoscenza e discernimento, come ben sapevano i padri siriaci. Così scandisce monsignor Bizzeti, convinto che «una fede solo “sentimentale” non regge gli urti». Lo testimonia, tra gli altri, abuna Saliba, che il gruppo incontra nel villaggio di una cinquantina di famiglie a Bsorino, sulla strada che da Midyat va verso Cizre, su una collinetta un tempo in mezzo a mandorli, vigneti e alberi da frutta, in gran parte distrutti dalla guerriglia turco-curda degli anni ’90. Una storia fatta di ripetute decimazioni dovute a peste, siccità, invasioni. Ad andare distrutto è anche il patrimonio di testi dei vangeli che erano stati scritti su pelli di gazzella e ornati con oro, «molto preziosi», racconta il parroco.
Erano ben venticinque le chiese disseminate in questa località, intitolate ad altrettanti santi. Assai tenace è la fede mostrata negli anni da questi abitanti, oggi quasi esclusivamente bovari e contadini, capaci di rialzarsi ogni volta come quando, nel 1492, oltre un migliaio di abitanti andarono in pellegrinaggio a Gerusalemme vincendo varie avversità. Saliba descrive un villaggio interamente cristiano che oggi gode di buona vita. Rientrato dopo vent’anni passati in Svizzera, il sacerdote è molto attivo nelle opere caritative ed educative e ha costruito anche una bella casa di accoglienza: «Mi ero sistemato bene in Europa ma a un certo punto ho realizzato che qui c’era bisogno di me».
Continuando verso l’Iraq, ormai vicino, si incontra la chiesa restaurata del villaggio di Midin, dedicata a Giuda Taddeo. Qui c’è abuna Semun Uçar a illustrare il territorio che conserva antichi reperti dell’epoca medio-assira e un’antica iscrizione su cui per la prima volta compare il nome di una monaca nel Tur Abdin. Vari assedi, fino al secolo scorso, hanno decimato i cristiani o li hanno costretti a fuggire; si parla di circa duemila famiglie. Molti superstiti sono riparati in Iraq e in Libano definitivamente, altri sono tornati qualche anno dopo, altri ancora hanno trovato rifugio nella chiesa fortificata di Mor Dodo. Attualmente sono poco più di un centinaio le case nuove che vengono utilizzate d’estate al loro rientro. Si produce un buon vino e spuntano un po’ ovunque pizzerie grazie alle quali si cerca di dare un nuovo corso alla propria sussistenza. «Il futuro lo vedo un po’ difficile per noi», confida il parroco che lamenta la mancanza di sostegno, al di fuori di ciò che possono fare le famiglie, per le attività educative dei cristiani. «Non dobbiamo costruire solo pietre ma comunità di fedeli», sottolinea.
Prima di proseguire verso il monastero di Mor Gabriel, si sosta presso una famiglia di contadini, nel villaggio di Beth Kustan dove vivono diciassette famiglie cristiane. La metà degli abitanti risiede all’estero. La diaspora è stata forte soprattutto negli anni Ottanta, acuita dai problemi causati dal terrorismo. Squisita è l’accoglienza nel cortile di una modestissima abitazione, tra galline e un allevamento di dieci mucche, undici capre e tre pecore. Di tredici fratelli, più o meno la metà vive all’estero. Quelli rimasti, ciascuno secondo le proprie attitudini, si dedicano alle necessità della casa, del lavoro e degli anziani verso i quali il dovere di cura è molto sentito. Coltivano fichi, mandorle e pistacchi, e con qualche rimessa dei familiari riescono a sostenersi. È la sorte di diversi turchi: «Ultimamente è sempre più difficile emigrare, almeno per chi non ha uno status sociale elevato». Anche i ricongiungimenti familiari sono assai complicati. La ragazza quasi maggiorenne desidererebbe andare a studiare inglese all’estero, per poi diventare insegnante. I suoi occhi vispi e gentili sono lo specchio di un sogno. Istruirsi è fondamentale, dicono qui, perché aiuta anche a favorire la convivenza e il dialogo.
Le dighe sull’Eufrate hanno portato tanta acqua per le coltivazioni ma hanno anche inasprito quella guerra per l’acqua che ormai dura da trent’anni con i vicini popoli di Iraq e Siria. Si procede oltre Midin per giungere a Idil, vicinissimi alla frontiera. A nord della Mesopotamia, nel IV secolo la zona poteva vantare il ruolo di importante bacino di diffusione della letteratura siriaca da Edessa. C’erano chilometri e chilometri di frutteti, giardini, vicoli alberati, case private. «Era un piccolo paradiso», dicono i locali, «poi tutto è andato distrutto con la guerra fra turchi e secessionisti curdi». A raccontare con una stretta al cuore le vicende di questo paese, che ora conta trentamila abitanti di cui una trentina cristiani, è Seydi Gösteris, donna che è un vulcano di imprenditorialità e generosità. Ricorda le sorti della prima chiesa, sorta qui nel 57 dopo Cristo, che la tradizione popolare vuole luogo di transito di Maria, madre di Gesù, di san Giovanni l’evangelista, di Maria Maddalena e di Taddeo. Nel 1915 il paese resistette a quaranta giorni di assedio delle truppe turche che infine se ne andarono, evitando così lo sterminio che invece toccò a molti altri cristiani dei borghi vicini. Come riporta la guida Chiese e monasteri di tradizione siriaca (Bizzeti-Chialà, TS edizioni, 2024), un ufficiale tedesco, al soldo degli ottomani, si convertì (divenendo poi sacerdote in Germania) vedendo un’apparizione della Vergine Maria che proteggeva il paese con il suo mantello respingendo i colpi dell’armata. Negli anni Ottanta, Idil fu quasi completamente rasa al suolo dall’esercito turco che combatteva i secessionisti curdi. Dell’antico agglomerato, fino a cinquant’anni fa interamente cristiano, restano solo alcune chiese ma la comunità è viva e ha costruito anche una guest house per pellegrini e visitatori cristiani. Le chiese della cittadina sono state quasi tutte restaurate dai cristiani della diaspora o tornati ad abitare i luoghi da cui fuggirono i loro nonni e genitori. La visita è possibile grazie all’agenzia aperta proprio da Seydi e da Medina che hanno a cuore la conoscenza di questi siti preziosi.
È qui, in una chiesa diventata caserma dal 1940 al 1947, che Seydi parla della sua emigrazione in Svizzera, del suo allontanamento dalla fede e del riavvicinamento dopo la guarigione, inspiegabile per i medici, della madre colpita da una malattia invalidante: «Lei mi aveva insegnato tutte le preghiere. A quel punto mi sono realmente convertita e da quel momento il Signore mi ha messo nel cuore di tornare nel luogo dove sono nata». Era il 2008, doveva ripartire da zero. La conoscenza delle lingue e alcuni incontri fortunati l’hanno agevolata nel creare sinergie con giornalisti interessati a realizzare un documentario in Iraq: «Era l’epoca della guerra civile in Iraq, in televisione vedevamo tanti bambini che scappavano dalle case nelle montagne. Mi nacque il desiderio di andare». Seydi si adopera per raccogliere fondi con l’aiuto dell’associazione “Il giardino dei bambini”, con sede in Svizzera e di cui attualmente è delegata per il Medio Oriente. È riuscita a far arrivare tonnellate di aiuti umanitari per yazidi, cristiani e altre minoranze rifugiate nel nord dell’Iraq in seguito ai massacri da parte dell’Isis.
«Il Signore mi dà la volontà e il coraggio», racconta, «siamo totalmente volontari. Lavoriamo attraverso le Chiese cattolica e ortodossa e associazioni locali. Abbiamo potuto distribuire a più di 2500 famiglie beni di prima necessità, realizzato più di duecento progetti, sistemato scuole, oratori, ospedali, case di riposo, aperto sartorie. Abbiamo messo su un centro per centinaia di bambini abbandonati ad Aleppo in collaborazione con la fondazione “Sant’Efrem”. Durante il mio ultimo viaggio in Siria, nel maggio scorso, ho visto che la condizione dei bambini è molto peggiorata nelle grandi città, come Homs, Aleppo, Damasco, Latakia e Tartus. Speriamo di poter aprire altri due centri, uno a Homs e l’altro a Latakia». Nel suo viaggio ha visitato anche la zona costiera, dove ha ascoltato storie difficili soprattutto di alawiti, drusi e cristiani. I pellegrini hanno contribuito con una raccolta estemporanea servita ad acquistare — come ha informato Jean-François Thiry, dell’associazione Pro Terra Sancta — materiale scolastico e vestiario per i piccoli della provincia di Idlib, nel villaggio di Knaje.
Tornano alla mente le parole del vescovo siro-ortodosso Filiksinos Saliba Özmen, incontrato a Mardin, il cui sguardo sulla vicina Siria non cela l’apprensione: «Per ora non abbiamo grandi aspettative ma dobbiamo guardare con speranza. L’auspicio è che i siriani possano aspirare a un certo benessere e che i cristiani possano assumere un ruolo centrale nel futuro del paese; insomma, che si ricostituisca il ponte tra Oriente e Occidente. Molto importanti i passi che farà l’Europa in questo ambito». Intanto si rientra a Nusaybin, sul confine turco-siriano. Con la celebrazione nello splendido battistero più grande del mondo, annesso alla chiesa di San Giacomo di cui restano solo ruderi (e dove è sepolto il santo di Antiochia che partecipò al primo Concilio ecumenico della storia, a Nicea), si chiude un percorso che ha mostrato un volto delicato e nascosto della Turchia. Un gruppo di bambini per strada invitano a giocare. «Mamma ci dice di stare attenti, che non possiamo avventurarci oltre, dove è buio», dicono in inglese. Oltre c’è la Siria. C’è una porzione di mondo su cui è concesso per ora un timido affaccio e che merita la luce chiara di una rinascita.