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Dal convegno cattolico del ‘67 alla sfida dell’IA: un itinerario cristiano

La pace non come slogan politico ma forza spirituale incarnata nel quotidiano

 La pace non come slogan  politico ma forza spirituale incarnata nel quotidiano  QUO-141
20 giugno 2025

di Francesco Recanati

Nel maggio del 1967, a Roma, pochi giorni prima dello scoppio della “guerra dei sei giorni”, un gruppo di docenti cattolici si riunì per interrogarsi sulla pace, intesa non come fatto politico, ma come “dimensione dello spirito”. Promosso dal Comitato cattolico docenti universitari e guidato dal giurista Gabrio Lombardi, figura di spicco del laicato cattolico italiano del dopoguerra, il convegno evitò ogni riduzionismo, rinunciando alla classica distinzione tra guerre “giuste” e “ingiuste”, per riflettere invece sulla pace come realtà spirituale originaria, anteriore a ogni strategia politica. Un “salto qualitativo” — come lo definì uno dei relatori — che la riflessione cristiana rende possibile, riconoscendo nella libertà e nella fraternità, e non nella logica homo homini lupus, dimensioni essenziali della persona umana, radicate in interiore homine, nel rapporto più profondo dell’io con Dio, e chiamate a tradursi dalla coscienza individuale alla vita della società.

In un mondo che stava diventando consapevole della possibilità reale di autodistruzione, resa tecnicamente possibile dai cosiddetti progressi scientifici, si affermava con lucidità che una pace fondata sul reciproco timore, la cosiddetta “deterrenza nucleare”, non poteva essere né autentica né duratura. Solo una coscienza spirituale diffusa avrebbe potuto renderla viva, stabile, feconda e più durevole di qualsiasi trattato diplomatico.

La conclusione del convegno fu affidata a Clemente Riva, allora giovane teologo e futuro vescovo ausiliare di Roma. Nel suo intervento parlò della pace non come di uno slogan politico, né come di una semplice emozione collettiva, ma come di un dono divino che interpella la coscienza delle persone e la missione della Chiesa. Una concezione della pace intesa come carisma; non riducibile a sentimento o accordo, ma come forza spirituale capace di attraversare culture, istituzioni, biografie, incarnandosi nelle azioni quotidiane dei fedeli e dei santi, oggi troppo spesso trascurati come modelli di vita.

A oltre mezzo secolo di distanza, la riflessione di Clemente Riva risuona con forza, in un tempo segnato da nuovi conflitti e da forme di violenza che si insinuano nei linguaggi, nelle tecnologie, nelle istituzioni. È un invito a guardarsi tanto dalle illusioni ideologiche quanto dal fatalismo. La vera pace, ci ricorda, è una forza morale e concreta, capace di tradursi in scelte responsabili e in gesti riconcilianti. In un certo senso, ben si accorda con questa visione la massima spesso attribuita a sant’Ignazio di Loyola: «Agisci come se tutto dipendesse da te, ma prega come se tutto dipendesse da Dio».

Forse non è un caso che il nuovo Papa, Leone XIV definendosi “un figlio di sant’Agostino”, abbia riproposto con forza il tema della pace come ordo amoris. Nel suo primo Regina Caeli ha rivolto un appello a Maria, «perché sia lei a presentarlo al Signore Gesù per ottenerci il miracolo della pace». Parole che si collocano nella lunga tradizione della pietà mariana, non come delega automatica, né come meccanismo teologico, ma come invocazione che accompagna la responsabilità umana, affidandola all’amore misericordioso di Dio. Un’espressione popolare, profondamente radicata nella fede del popolo di Dio, per dire che la pace non si impone con la forza, ma si riceve come grazia e si costruisce con la carità incarnata, a partire dai nostri cuori.

Pregare per la pace non significa evadere dalla responsabilità storica, ma assumere una posizione radicale, capace di sottrarre la storia al cinismo e restituirla alla “promessa”. Papa Francesco ha spesso parlato degli “artigiani della pace”, persone che, con piccoli gesti quotidiani, costruiscono riconciliazione e pace dove altri seminano rancore e divisione.

Nel 1986, l’informatico Joseph Weizenbaum — tra i pionieri dell’intelligenza artificiale e autore del libro Computer Power and Human Reason — ammoniva i giovani scienziati: «Voi avete il potere di rendere più probabile l’assassinio dei miei figli, oppure di fermare per sempre questa follia. Chiedetevi se siete al servizio della vita o della morte».

Un monito che resta attualissimo, in un’epoca in cui siamo capaci di sviluppare sistemi d’arma autonomi, privi di coscienza, capaci di uccidere e distruggere, ma incapaci di domandarsi: “È giusto quello che sto facendo?”

Oggi più che mai, “il miracolo della pace” non verrà dai potenti di turno, né da nuove tecnologie militari. Verrà da chi continua a credere ‒ contro ogni evidenza ‒ che l’amore è più forte dell’odio, e che la preghiera può ancora aprire spazi di dialogo e riconciliazione. È la fede cristiana nella pace: la certezza incrollabile che, nonostante tutto, il male e l’odio non praevalebunt.

È tempo di tornare a guardare alla vita dei santi non come a eccezioni lontane o fuori tempo, ma come a luci accese nel buio, capaci di orientare il cammino del nostro presente. Non è forse un caso che, tra qualche mese, saranno canonizzati due giovani testimoni del Vangelo ‒ Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati ‒ che, con la loro esistenza semplice e luminosa, hanno mostrato che la pace nasce nel cuore, si costruisce nella carità vissuta e si custodisce nella fede che illumina la notte. Acutis e Frassati incarnano quell’idea del santo come luce da “non mettere sotto il moggio”, discreta ma presente, quotidiana ma profetica. Una luce che porta attenzione, responsabilità e creatività nel servizio, e che diffonde, con tenacia silenziosa, quella pace che nasce nel cuore e, senza clamore, irradia vita nelle relazioni.