
di Sergio Beraldo*
Il mercato, in quanto rete di relazioni cooperative, è un’istituzione sociale innocente. Questa prospettiva, lo ammetto, stride con altre meno benevole rappresentazioni ma è coerente con l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa che, appunto, non condanna il mercato; ne condanna semmai l’«idolatria», il suo dispiegarsi «al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri» (Fratelli tutti, 122). La Chiesa non condanna il mercato perché fiduciosa della possibilità di piegarne la traiettoria verso la dignità umana e il bene comune.
Naturalmente assolvere il mercato come istituzione in grado, in principio, di favorire la cooperazione tra gli uomini non può implicare l’accettazione di ogni suo capriccio. Chiarisco. Nel concedere alla controparte il minimo possibile nelle circostanze attuali, obbedisco a una logica che pare assolvermi da qualsiasi responsabilità. Ma per il cristiano questa logica non può essere una buona logica poiché l’imperativo a farsi prossimo deve valere anche nel mercato. Tale imperativo richiede l’adesione a una prospettiva di gratuità, sorretta dalla «capacità di fare alcune cose per il solo fatto che sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato» (Fratelli tutti, 139): è il datore di lavoro che va al di là, nello stabilire la retribuzione, di ciò che gli consentirebbero le circostanze; è la parte di un contratto che rinuncia a sfruttare l’altrui condizione di bisogno.
Sono, queste, istanze di gratuità che vivificano il mercato, nella logica di una responsabilità morale che direi umana, da contrapporre alla visione disumanizzata che viene somministrata con larghezza anche nelle accademie.
Per salvaguardare l’innocenza del mercato nelle circostanze concrete di funzionamento occorre innanzitutto uno sforzo per liberarlo dall’ideologia che ne avvinghia le fondamenta; la cui attenzione è rivolta non alla persona, con la sua sacralità esistenziale, ma all’individuo, monade che meccanicamente reagisce agli stimoli impersonali dei prezzi. L’individuo, ingranaggio di un meccanismo che procede verso il meglio, e che ottiene, dal mercato, ciò che merita; sottintendendo, con ciò, che l’insuccesso e il bisogno siano la conseguenza di un demerito.
Si tratta di un’ideologia che produce mostri, che mortifica la responsabilità morale e smarrisce il senso della gratuità negli appetiti più bassi e famelici, esaltando inclinazioni “lupigne” troppo caricaturali per essere vere.
*Docente di economia politica all’Università degli studi di Napoli «Federico II»