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Intervista con l’attivista italo-israeliana Manuela Dviri su come si sta vivendo la guerra a Tel Aviv

«Finisca presto!»

TOPSHOT - Israeli air defence systems are activated to intercept Iranian missiles over the Israeli ...
18 giugno 2025

di Roberto Cetera

La conversazione si interrompe più volte per il suono delle sirene. Manuela Dviri, giornalista italo-israeliana, attivista per la pace e filantropa, vive al centro di Tel Aviv. «Anche qui vicino a casa sono caduti dei razzi. Senti ora? Questo è un preallarme».

Cioè?

È un avviso che dice che è stata segnalata la partenza di un razzo dall’ Iran. Fra meno di mezz’ora potrebbe suonare l’allarme vero e proprio. Se non suona significa che è stato intercettato. Succede più volte al giorno. Già tre volte nelle ultime due ore.

E la gente che fa?

Per lo più rimane a casa. Quando suona l’allarme devi essere pronto ad andare nel rifugio. E se vai in giro magari poi non sai dove trovarlo. Qui, e non da oggi, ogni casa e ogni posto di lavoro ha un rifugio vicino. Si sta a casa quindi e con la televisione accesa almeno 16 ore al giorno. Quelli che non amano il governo di Benjamin Netanyahu sintonizzati sulla tv pubblica, il canale 12, quelli della destra sul canale 14. E la tv riesce nel triste compito di mantenerti in alta tensione anche nell’intervallo tra un allarme e l’altro. Le scuole sono chiuse e così anche molti uffici sia pubblici che privati. Chi può lavora da casa. Le macchine in giro sono pochissime. Uno dei guai della guerra è che tutto diventa difficile nella quotidianità. Come trovare un dottore e poterlo raggiungere, o uscire per comprare i farmaci. Ci sono poi decine e decine di migliaia di israeliani che si trovano all’estero temporaneamente e non riescono a rientrare, il paese è isolato, l’aeroporto Ben Gurion di Lod è chiuso dall’inizio della guerra.

Ma qual è il sentimento che raccoglie tra la gente?

Vedi, è difficile spiegarlo senza creare l’equivoco che gli israeliani siano dei guerrafondai. Perché la maggior parte del popolo sostiene questa guerra e la sua necessità. Ti spiego: da anni la propaganda iraniana predica la distruzione di Israele, e tramite i suoi proxy Hezbollah, Hamas e houti, non si sono limitati alle parole ma l’hanno perseguita nei fatti. La minaccia è entrata nelle coscienze, direi nei reconditi psicologici, della popolazione israeliana. È una percezione diversa da quella che c’è stata nei conflitti con gli altri paesi arabi. Tant’è che, con egiziani, giordani e con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), alla fine si è potuto negoziare. Qui non è in ballo l’opzione dei “due Stati” o i confini territoriali, qui la questione è che ci vogliono morti. Punto. Anche se io penso che se si fossero realizzati i due Stati si sarebbe spuntata un’arma agitata dagli ayatollah. Avrai notato che anche le forze politiche che si oppongono a Netanyahu e al suo governo non hanno contestato la decisione di attaccare l’Iran.

E proprio questo era il momento giusto?

Anche in questo caso potrà sembrare strano che una pacifista israeliana dica che, da un punto di vista strategico militare, questo era il momento migliore, perché i proxy dell’Iran sono stati già neutralizzati. Ma il punto secondo me è un altro: siamo sicuri che la realizzazione degli ordigni nucleari fosse così imminente? La Cnn ha riferito che fonti dell’intelligence americana lo negherebbero: l’Iran non sarebbe in grado di costruire la propria bomba atomica prima di tre o quattro anni. Allora il dubbio che comincia a serpeggiare in molti ambienti è che Netanyahu abbia scelto questo momento per ragioni di sua convenienza. Cioè distrarre la comunità internazionale dalla tragedia di Gaza, smorzare le proteste di piazza contro il suo governo, accantonare l’ipotesi di crisi di governo provocata dagli “haredim”, e soprattutto sospendere di nuovo il processo penale che lo vede imputato di corruzione. A questo aggiungerei che questa gigantesca prova di forza militare riabilita l’esercito, l’aviazione, il Mossad e lui stesso dalla tragica défaillance del 7 ottobre. E rafforza l’orgoglio nazionale. Ma sottolineo che si tratta di considerazioni che oggi riguardano una piccola parte della popolazione, il senso patriottico degli israeliani, e il timore delle minacce esistenziali degli iraniani, sono più forti.

E cosa si dice delle reazioni internazionali?

In Israele si parla sempre poco di cosa gli altri pensino e dicano di noi. Ma prevale l’idea che Israele stia difendendo non solo se stesso, ma l’intero Occidente dalla minaccia iraniana. Che poi è quello che ha sostenuto ieri il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, quando ha detto che tocca ad Israele “fare il lavoro sporco “. Lascia invece un po’ perplessi la posizione americana: cambiano toni a giorni alterni. Vogliono la fine della guerra, però al tempo stesso il presidente Donald Trump minaccia l’Iran che il peggio deve ancora arrivare. Sarà un mio limite ma francamente faccio fatica a capire”.

Come finisce, secondo lei?

Spero solo che finisca presto. E che non ci si scordi nel frattempo degli ostaggi e dei civili palestinesi che continuano a morire a Gaza.