· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Il provvedimento del presidente Trump riguarda 12 Paesi

Le restrizioni di viaggio verso gli Usa preoccupano
i Paesi africani

 Le restrizioni di viaggio verso gli Usa preoccupano i Paesi africani  QUO-136
13 giugno 2025

di Giulio Albanese

Ha suscitato non poco e comprensibile malessere nelle cancellerie africane il provvedimento della Casa Bianca annunciato il 5 giugno scorso ed entrato in vigore in settimana, che oppone restrizioni di viaggio negli Stati Uniti ai cittadini di 12 Paesi, 7 dei quali appunto africani. I Paesi interessati sono Afghanistan, Myanmar, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. L’ingresso di persone provenienti da altri 7 Paesi (Burundi, Cuba, Laos, Sierra Leone, Togo, Turkmenistan e Venezuela) sarà parzialmente limitato. Il presidente Donald Trump ha giustificato la decisione annunciata dalla sua amministrazione affermando che tale provvedimento si è reso necessario per proteggere gli Stati Uniti dai «terroristi stranieri» e da altre minacce alla sicurezza. «Non permetteremo l’ingresso nel nostro Paese a chi vuole farci del male», ha dichiarato Trump in un video pubblicato su X. Ha poi aggiunto che l’elenco potrebbe essere rivisto e che alla lista potrebbero essere aggiunti nuovi Paesi.

Trump non è nuovo a questa modalità di chiusura delle frontiere che si affianca alle misure contro l’immigrazione. Già durante il suo primo mandato, infatti, aveva vietato l’ingresso negli Stati Uniti ai viaggiatori provenienti da sette nazioni a maggioranza musulmana, una norma che scatenò contestazioni poi finite in tribunale. La Corte Suprema, alla fine, decise di approvare la terza versione del divieto di viaggio emessa da Trump nel 2017. Limitava in vari gradi l’ingresso da Iran, Corea del Nord, Siria, Libia, Yemen, Somalia e Venezuela.

Il presidente ha spiegato poi come la scintilla che ha motivato l’adozione di queste misure restrittive sui visti sia legata al «recente attacco terroristico a Boulder, in Colorado, che ha evidenziato gli estremi pericoli che l’ingresso di cittadini stranieri non adeguatamente controllati rappresenta per gli Stati Uniti. Non li vogliamo». Secondo un funzionario della Casa Bianca, comunque, il presidente pensava al provvedimento già da tempo anche se ad accelerarne il varo è stata appunto l’aggressione di domenica 1° giugno contro una marcia a Boulder a sostegno degli ostaggi israeliani a Gaza nella quale sono rimaste ferite otto persone. Curiosamente, l’Egitto, Paese d’origine dell’attentatore di Boulder, non è stato inserito nella lista dei cattivi.

Il provvedimento voluto da Trump prevede delle eccezioni per i titolari di determinati visti e per le persone il cui viaggio negli Stati Uniti «serve nell’interesse nazionale». Non saranno pertanto interessati dalle restrizioni, ad esempio, i calciatori che parteciperanno alla Coppa del Mondo 2026, che si terrà negli Stati Uniti, in Messico e in Canada, così come anche nel caso degli atleti delle Olimpiadi di Los Angeles in programma nel 2028. Inoltre, sono previste esenzioni per i cittadini con doppia cittadinanza. I visti rilasciati prima dell’entrata in vigore del provvedimento non saranno comunque revocati.

Le nuove restrizioni sui visti arrivano a meno di cinque mesi dall’insediamento del presidente alla Casa Bianca. A questo proposito è bene ricordare che nel suo primo giorno in carica, Trump aveva emesso un ordine esecutivo che ordinava ai membri del governo, incluso il Segretario di Stato, di compilare un elenco di Paesi «per i quali le informazioni di controllo e screening sono così carenti da giustificare una sospensione parziale o totale dell’ammissione di cittadini provenienti da tali Paesi».

Per protesta il governo ciadiano ha fatto sapere che sospenderà tutti i visti ai cittadini statunitensi per una questione di “reciprocità”, dopo aver appreso che il proprio Paese è uno dei dodici ai cui cittadini è stato vietato l’ingresso negli Stati Uniti. «Il Ciad non ha né aerei da offrire né miliardi di dollari da donare, ma ha la sua dignità e il proprio orgoglio», ha dichiarato il presidente Mahamat Idriss Déby Itno in un post su Facebook (in francese). La Somalia, di converso, ha reagito prontamente al divieto di viaggio, impegnandosi immediatamente a collaborare con gli Stati Uniti per risolvere eventuali problemi di sicurezza. In una dichiarazione rilasciata a Washington l’ambasciatore somalo negli Stati Uniti, Dahir Hassan Abdi, ha affermato che il suo Paese «apprezza il suo rapporto di lunga data» con gli Stati Uniti. Dal canto suo, l’Unione Africana (Ua) ha espresso in una nota ufficiale la propria preoccupazione «per il potenziale impatto negativo» delle misure e ha invitato il governo statunitense ad adottare «un approccio più consultivo... con i Paesi interessati».

L’emittente britannica Bbc in lingua Tigrinya ha intervistato diversi eritrei che sono allarmati per le conseguenze del divieto. L’Eritrea è uno stato monopartitico, governato dal presidente Isaias Afwerki da quando questo Paese ha ottenuto l’indipendenza dall'Etiopia nel 1993, dopo una dura lotta durata trent’anni. I giovani eritrei sono soggetti a un gravoso servizio militare obbligatorio che dura lunghi anni, il che spinge migliaia di loro ad abbandonare il Paese e a cercare rifugio altrove. «Come eritrei — ha commentato una persona che ha chiesto l’anonimato — abbiamo già sofferto sotto il nostro regime in patria e ora stiamo affrontando le stesse difficoltà con le politiche sull’immigrazione. Abbiamo sopportato tanto dolore e questo proprio non ci voleva».

Le restrizioni sui visti hanno comunque acceso il dibattito sulla stampa internazionale. Ad esempio, in un servizio pubblicato sulla versione digitale di «Le Monde», a firma di Christophe Châtelot, si illustra il grande paradosso: Kinshasa e Brazzaville, le capitali dei due Congo che si fronteggiano l’una di fronte all’altra, divise dall’omonimo fiume, hanno avuto una diversa sorte, motivo per cui ci si domanda con quale criterio Donald Trump abbia stilato la lista dei 12 Paesi di cui sopra. E sì, perché «la Repubblica Democratica del Congo — scrive Châtelot — è stata risparmiata dal divieto, mentre il suo vicino, la Repubblica del Congo (Rdc), è stato incluso nella lista».

In effetti, a pensarci bene, una ragione dietro le quinte c’è. L’amministrazione Trump si è impegnata nel promuovere il processo di riconciliazione tra il governo di Kinshasa e il movimento ribelle filo-rwandese M23 in Rdc, dando una una forte impronta di diplomazia commerciale al proprio agire. Come osserva il sito Afrikarabia, la Casa Bianca ha coinvolto attivamente il settore privato nel processo di pace, tutelando gli interessi delle proprie imprese coinvolte nell’estrazione mineraria. Un esempio emblematico è il ritiro del gruppo armato M23 dalla miniera di stagno di Bisie, nei pressi di Walikale, controllata dalla società statunitense Alphamin. Ecco che allora appare evidente come il dispositivo sanzionatorio da parte della Casa Bianca, più che rispondere primariamente alle situazioni di conflitto, di violazioni di diritti umani e di autocratizzazione presenti in diversi Stati del continente che possono giustificare l’imposizione di misure restrittive, diventi uno strumento persuasivo per fare affari. Una cosa è certa: pensare che l’Africa costituisca un pericolo per gli Usa, pare francamente eccessivo, soprattutto considerando le responsabilità dei grandi player internazionali nelle vicende africane.